Mancano ormai poche ore al voto. È dunque il momento di andare al nocciolo della questione che come cittadini elettori dobbiamo dirimere con un Sì o un No. È certamente vero che lunedì mattina il sole tornerà a sorgere, qualunque sia il responso delle urne. Ma è altrettanto vero che non sarà la stessa Italia quella che i suoi raggi torneranno a illuminare e riscaldare.
Giorgio Tonini, 1 dicembre 2016
A seconda del risultato, ci saranno due Italie diverse, che assai probabilmente diventeranno sempre più diverse nei mesi e negli anni che abbiamo davanti.
Qualunque sarà il risultato, lunedì tornerò a Roma. Da martedì in Senato la Commissione bilancio, che come si usa dire ho l'onore e l'onere di presiedere, deve prendere in esame la manovra finanziaria appena approvata in prima lettura alla Camera. La manovra, che contiene molte misure positive per la nostra economia, si basa su due numeri magici, che sono in grado di spiegarci la condizione del nostro paese più di un trattato socio-economico. Sono il numero 1 e il numero 2,3. Il numero 1 indica l'obiettivo di crescita che si pone il governo per il 2017. Il numero 2,3 indica invece l'obiettivo di deficit pubblico, sempre per il 2017. Sono entrambi numeri migliori di quelli raggiunti quest'anno, che dovrebbe chiudersi con una crescita allo 0,8 e un deficit al 2,4 e a quelli degli anni precedenti: non dimentichiamo che fino al 2014 il segno davanti al numero della crescita era un segno meno ed eravamo da poco usciti dalla procedura di infrazione europea per deficit eccessivo, cioè sopra al 3 per cento.
I numeri fondamentali dell'economia italiana, insomma, un po' alla volta migliorano. Oltre a quelli della crescita e del deficit, si potrebbero citare i miglioramenti dei numeri sulla disoccupazione e sulla pressione fiscale, entrambe in (lento) calo. Migliorano i numeri, ma non sono ancora numeri buoni. Per poter dire che stiamo in salute, i due numeri magici dovrebbero essere almeno invertiti: 2,3 per cento di crescita, ottenuta con un 1 per cento di deficit, che presto diventerà zero. Se fossero così, sarebbero numeri «tedeschi» e potremmo dire di essere davvero fuori dalla crisi.
Come si fa a tradurre in tedesco i nostri numeri? Abbiamo bisogno, in questo caso, non più di un numero, ma di una parola magica: è la parola «riforme», la stessa parola che ha consentito alla Germania, che era entrata nel nuovo millennio con l'etichetta di «grande malata d'Europa», di affermarsi dieci anni dopo come l'economia più forte del nostro continente. Riforme finalizzate ad aumentare la produttività (cioè la capacità di produrre valore), sia del lavoro, che del capitale, che delle nostre pubbliche amministrazioni. Abbiamo bisogno, avrebbe detto Schumpeter, di una stagione di «distruzione creatrice»: distruggere (rottamare?) vecchi modi di produrre, o di organizzare servizi, perfino interi comparti pubblici, per sostituirli con modalità nuove di lavorare, di creare, di servire.
Il governo Renzi, un governo in gran parte composto di giovani, sta provando ad andare in questa direzione. Quando si fa, si sbaglia e anche Renzi e i suoi ministri hanno fatto errori. Ma la direzione intrapresa è quella giusta: è la via delle riforme, per portare il nostro paese fuori dalla crisi, invertendo gradualmente i due numeri magici della manovra.
Che c'entra tutto questo con il Sì o il No alla riforma costituzionale? C'entra moltissimo, perché per fare le riforme, non una riforma ogni tanto, ma un ciclo riformatore come quello che hanno saputo mettere in moto, prima i socialdemocratici (coi verdi) e poi i democristiani tedeschi, c'è bisogno di un governo forte, in grado di vincere le inevitabili resistenze particolaristiche in nome dell'interesse generale, e dunque al tempo stesso stabile e democraticamente legittimato.
Ebbene, se vincerà il Sì, aumenteranno significativamente le possibilità di averlo un governo del genere: perché nel 2018 andremo a votare per la sola Camera dei deputati e, attraverso una legge elettorale maggioritaria (che sia l'Italicum o un'altra lo vedremo nei prossimi mesi e molto dipenderà dal giudizio della Corte costituzionale) saremo noi a decidere se deve continuare a governare il Pd con Renzi, o se è meglio tornare a Berlusconi, o se invece è il caso di rischiare un governo a guida Cinquestelle. Saremo noi cittadini elettori ad assumerci la responsabilità di questa decisione. Chi vincerà, forte di un chiaro mandato popolare, potrà portare avanti il suo programma con la fiducia della Camera dei deputati, mentre dal nuovo Senato gli arriverà il punto di vista delle Regioni e dei Comuni, autorevole ma non vincolante, salvo che, come è giusto, sulle grandi regole del gioco.
Se invece vincerà il No, il percorso riformatore perderà slancio, fino a fermarsi. Alle prossime elezioni politiche andremo a votare di nuovo sia per la Camera che per il Senato, di nuovo col rischio di ritrovarci con due maggioranze diverse nei due rami del Parlamento, o addirittura con nessuna maggioranza in entrambi, perché assai probabilmente, con la vittoria del No, torneremo ad un sistema proporzionale. Dopo le elezioni bisognerà formare un governo tra forze eterogenee, per non dire incompatibili tra loro. Se ci riusciremo, sarà comunque un governo fragile e precario, non scelto dagli elettori e quindi anche politicamente debole. Un governo poco autorevole, che poco potrà fare più che galleggiare sui problemi. Insomma, niente di nuovo sotto il sole d'Italia, è vero. Ma non sarebbe affatto una buona notizia.