Per Giorgio Tonini, gli italiani il 4 dicembre hanno due possibilità: «Scegliere un modello istituzionale che permetta al loro voto di decidere chi governa, o tornare al vecchio sistema proporzionale, ma senza i partiti di una volta».
T. Scarpetta, "Corriere del Trentino", 27 novembre 2016
Senatore, oltre la nebbia della retorica sollevata da entrambe le parti, la preoccupazione maggiore degli italiani circa la riforma è che questa possa ridurre la democrazia.
«Stiamo parlando di una riforma molto moderata. La prima parte della Costituzione non viene nemmeno toccata, sarebbe come emendare l’Odissea. La seconda parte, però, non è poesia, è figlia della rottura del fronte antifascista e può, anzi deve essere aggiornata. Noi oggi abbiamo, caso unico al mondo, una Camera e un Senato che fanno esattamente la stessa cosa perché chiunque avesse vinto le elezioni avrebbe avuto bisogno dell’altro. Serviva ad evitare la guerra civile e, all’epoca, fu un bene. Il rovescio della medaglia fu un governo debole e precario».
Un sistema che, però, è stato capace di governare il Paese, almeno finché sono esistiti partiti con un’ideologia riconoscibile e un’organizzazione strutturata.
«Certo. Non a caso la prima Repubblica è stata anche definita la Repubblica dei partiti, o, in termini spregiativi, partitocrazia. Governi deboli e partiti forti. Questo, però, è stato anche un modo per controllare la volontà popolare che, in ogni caso, veniva mediata dai partiti. Io credo che, oggi, il Paese sia pronto per passare dalla Repubblica del partiti, alla Repubblica dei cittadini. Non cambiamo la forma di governo, sarà sempre il Parlamento a dare e togliere la fiducia al governo».
Secondo lei, insomma, si tratta di completare il passaggio dal proporzionale al maggioritario.
«Sì. Basti pensare che, dal 1994 ad oggi, in quattro legislature su sei non abbiamo avuto governi sostenuti da maggioranze solide. C’è chi dice che è una questione di legge elettorale e che se Ciampi avesse concesso il premio di maggioranza anche al Senato, si sarebbe risolto. Non è vero. Nel 2006, con il premio di maggioranza su entrambe le camere, Prodi avrebbe avuto la maggioranza alla Camera, Berlusconi al Senato. Si può governare un Paese così? Berlusconi la sua scelta l’ha già fatta: proporzionale. Questo perché non riesce a federare il centrodestra, sa che non ha possibilità di vincere e si tiene così la possibilità di “mediare” con chi non perderà le prossime elezioni».
Il nuovo Senato, però, lascia perplessi anche molti sostenitori della fine del bicameralismo paritario. Ha senso, ad esempio, istituire una Camera delle Regioni mentre si riaccentra il potere nelle mani dello Stato?
«Il fatto che questa sia una riforma accentratrice è un falso mito. Si tolgono alle Regioni competenze concorrenti che, di fatto, la Corte costituzionale aveva già tolto sulla base del principio di ragionevolezza. In compenso, le Regioni ottengono tre risultati. Primo: entrano in Parlamento e non mi pare poco. Secondo: nomineranno due giudici della Corte costituzionale che possiamo immaginare di orientamento federalista. Terzo: resta la possibilità di chiedere di esercitare competenze esclusive dello Stato. Oggi si pretende che il Molise e la Lombardia esercitino le stesse competenze. Domani si farà chiarezza tra cosa fa lo Stato e cosa le Regioni, lasciando a quelle più strutturate la possibilità di avvicinarsi alle Speciali».
Tuttavia, spazi di amministrazione tornano allo Stato, che non ha dimostrato in questi anni di essere l’ente più efficiente.
«È vero che, oggi, il potere della burocrazia è enorme e che la prima risposta che normalmente dà è “a ordinamento vigente, non si può fare”. Questo perché, in assenza di una politica che può decidere, a governare è lo status quo. Quando avremo una politica efficiente, avremo anche un’amministrazione più efficiente».
Con la riforma si elimineranno definitivamente le Province, i senatori non saranno più eletti, nelle città da tempo si parla di eliminare le circoscrizioni, gli stessi sindacati sono spesso visti come un ostacolo. Poi, però, ci si lamenta che i cittadini non partecipano più, che la rappresentanza è in crisi.
«Ne discutiamo da molti anni, da un lato la decisione, dall’altro la partecipazione. Io come cittadino vorrei partecipare alla decisione e questa riforma me ne dà la possibilità. La partecipazione, se diventa un atto rituale che non porta a nulla, crea solo disaffezione».