Si chiudono proprio oggi i termini per il deposito delle candidature alla direzione dell’Istituto storico Italo-Germanico della Fondazione Bruno Kessler, guidata in questi anni da Paolo Pombeni. Questi mesi di interregno, anche se un poco più lunghi di quanto preventivato inizialmente, hanno rappresentato per tutti noi un momento importante per una riflessione su cosa sia (o debba essere) oggi l’Istituto, su cosa ancora il binomio Italo-Germanico possa significare per questo territorio e, più in generale, su quale sia il contributo che una comunità chiede oggi agli studi storici.
Potrebbero sembrare domande generiche, ma non lo sono. E per accorgersene basta pensare alla storia recente e remota di quello che per noi è quasi un’istituzione, oltre che un Istituto. Sono domande importanti e necessarie, perché senza una seria riflessione sull’uso e sull’utilità della disciplina storica, quella scienza – così come i centri in cui viene studiata e impartita – rischierebbero d’essere relegati nella produzione d’intrattenimento colto. Il punto, a mio avviso, è che oggi tendiamo a non credere più che il presente, se non addirittura il futuro, sia figlio del nostro passato. Così come facciamo fatica ad accettare il vecchio detto tedesco per cui la politica è figlia della storia e la storia è figlia della geografia. L’esperienza generalizzata del progresso tecnologico sembra infatti aver messo in crisi la consapevolezza della continuità del passato? Allo stesso modo la politica sembra aver perso coscienza del suo rapporto con quanto il passato ha sedimentato, così come la globalizzazione delle comunicazioni e la facilità degli spostamenti hanno modificato il ruolo della geografia. Per uscire da questa spirale, e dunque anche per comprendere perché sia importante un Istituto che ha nel suo nome sia l’obiettivo di fare storia che due precise connotazioni geografiche, credo sia necessario rispondere a una domanda: quale obiettivo si pone oggi il lavoro dello storico? Non certo la semplice ricostruzione corretta del passato “come è veramente stato” (che non è mai possibile), e nemmeno l’affascinante ma vaga illusione di ricavare sempre “lezioni da imparare”.
Piuttosto, io credo, dire qualcosa sulla sfera pubblica, su quell’ambito in cui gli uomini si raccolgono per diventare “una comunità di destini”. Un compito importante oggi, in una realtà nella quale le comunità di destini sono molte e varie, e all’interno di aree politiche e geografiche circoscritte convivono fedi diverse, diverse abitudini, diverse tradizioni, diverse lingue, ciascuna delle quali, per chi le condivide, ha le caratteristiche per condurre i relativi membri a mettere in comune – appunto – la prospettiva del loro destino. In questo senso, il compito al quale la storiografia dovrebbe forse essere chiamata è la ricostruzione e l’interpretazione di queste dinamiche, offrendo un metodo per imparare a mettere in relazione le trasformazioni di fenomeni con le cause che li determinano, e creando strumenti di comprensione.
Di nuovo, si potrebbe pensare a questo come a un vago proposito, o come a un compito indefinito. Ma è invece qualcosa di molto concreto. Per stare a tempi recenti, lo dimostra ad esempio il dibattito sviluppatosi attorno a due iniziative che l’ISIG ha promosso. “Dialogo vince violenza. La questione del Trentino-Alto Adige/Südtirol nel contesto internazionale” e “L’età costituente. Italia 1946” non sono stati solo convegni per addetti ai lavori, e neppure due semplici punti d’affaccio sul passato. Piuttosto, due occasioni per una riflessione larga di un territorio che, a partire dal proprio percorso storico, ha orientato i suoi frutti al futuro, in una stagione nella quale le due Province – attraverso i lavori della Consulta per la riforma dello Statuto e della Convenzione sull’Autonomia – sono chiamate a ripensare i propri assetti. Di fatto, un contributo reale alla formazione di idee e strumenti con cui si scriveranno il futuro di due “comunità di destini”, che esistono e in cui noi agiamo, non da spettatori esterni, ma da membri coinvolti.