Quanto accaduto recentemente a Soraga, il tentativo di dare alle fiamme una casa destinata all’accoglienza dei richiedenti asilo, non è stato solo un atto violento contro trenta migranti, ma un attentato ai valori della nostra comunità.
Mattia Civico, "Trentino", 2 novembre 2016
Se c’è una cosa di cui possiamo andare fieri e che rende davvero speciale il nostro territorio, è quella che potremmo chiamare in estrema sintesi la “cultura di montagna”. Quella che vede la fatica come presupposto di ogni successo, che trova nella coesione la forza di una comunità, che suggerisce di badare alle cose importanti, che impone rispetto per la natura perché con essa ci convive profondamente. E, sopra ogni cosa, quella che, in caso di bisogno, ci fa correre a dare una mano.
Se la nostra protezione civile è presente ad Amatrice, se è riconosciuta in tutto il Paese come una eccellenza, se ne possiamo dunque essere fieri, non è un caso. La nostra storia racconta di una comunità che, quando la casa di qualcuno brucia, si attiva per spegnere il fuoco e proteggere le vittime. E’ sempre stato così, soprattutto nei paesi di montagna. L’attenzione a chi ci vive vicino, la capacità di sostenere chi è più fragile, accorgerci delle fatiche che ci affiancano, proteggere il più debole –in una parola potremmo ben dire “cooperare”- ha di fatto garantito non solo la sopravvivenza ma anche il benessere dei nostri territori di montagna.
I fatti di Soraga ci devono preoccupare dunque non solo per la violenza “mafiosa” ed intimidatoria che è stata messa in campo, ma soprattutto per il rischio che sia minato alla base uno dei capisaldi della nostra comunità: la capacità di mettere in protezione e dunque in salvo chi fugge dalla casa in fiamme. Non è in gioco la sopravvivenza di quei trenta migranti (loro il peggio lo hanno già passato, sono già dei sopravvissuti!), ma la nostra stessa umanità, la nostra identità, la nostra fierezza di persone che amano il proprio territorio e la propria comunità.
In tema di migranti spesso si parla di accoglienza e di integrazione. E penso sia giusto e nobile puntare a questi obiettivi. Credo però che prima di accoglienza e integrazione sia oggi necessario ed urgente attivare il sentimento della protezione. Chi è in pericolo, ancor prima che accolto ed integrato, va protetto. Non può essere lasciato davanti all’uscio chi cerca salvezza. E non importa se la sua fuga è originata dalla guerra o dalla fame. A pari condizioni ognuno di noi si metterebbe in marcia!
Dunque il punto oggi è questo. La casa del nostro vicino brucia. Ci chiede protezione. Sappiamo bene che è nostro dovere, verso noi stessi innanzitutto, aprire la porta. Sappiamo bene che chiuderci in un recinto sempre più fortificato ci renderà aridi e più soli. Sappiamo bene, tra l’altro, che se non apriamo la nostra porta, rischierà di bruciare anche il nostro fienile.
E’ urgente che la nostra comunità dia in questo senso segnali chiari ed inequivocabili. Che ogni comune del nostro territorio faccia la propria parte. Che ognuno di noi faccia la propria parte. E chi pensa di dividere con l’odio, fomentando violenza e diffidenza, chi strumentalizza per ragioni di consenso, chi invita a chiudere le porte, sia, nel senso evocato da don Milani, il nostro straniero. Perché noi non ragioniamo così: noi siamo gente di montagna.