“La Costituzione sarà gradualmente perfezionata e resterà la base definitiva della vita costituzionale italiana. Noi stessi, e i nostri figli, rimedieremo alle lacune e ai difetti che esistono, e sono inevitabili”: così si era espresso il 6 febbraio 1947 Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75, nel presentare all’Assemblea Costituente la bozza di Costituzione elaborata dalla Commissione stessa.Donata Borgonovo Re, 28 settembre 2016
La riforma costituzionale che i cittadini stanno imparando a conoscere, anche grazie al dibattito promosso dai giornali, e sulla quale esprimeranno il loro giudizio nel referendum di fine novembre, si colloca in questo percorso di ‘graduale perfezionamento’ che gli stessi Costituenti immaginavano come necessario e che dal 1948 ad oggi ha visto l’adozione di quindici leggi di revisione costituzionale. Una particolare procedura è stata prevista a questo scopo dall’art. 138, affidando al Parlamento ed agli stessi cittadini il compito di modificare l’atto fondamentale e fondativo della nostra comunità nazionale per correggerne i difetti e per mantenerne efficaci i principi.
Sappiamo che questa riforma, il cui testo è stato votato tre volte dalla Camera e tre volte dal Senato (in un tempo che va dall’agosto 2014 all’aprile 2016, con una varietà di composizioni e scomposizioni di gruppi politici ma sempre con una maggioranza di favorevoli pari al 57% dei componenti delle due camere), tocca solo la seconda parte della Carta, relativa all’ordinamento della Repubblica, senza però mutarne l’impianto di Repubblica parlamentare. Nulla a che vedere con la spesso citata riforma del 2006 nella quale, pur essendo presenti alcuni temi ripresi oggi (il ridisegno delle competenze legislative regionali, il recupero dell’interesse nazionale e la clausola di salvaguardia), si trasformava il Presidente del Consiglio dei Ministri in un Primo Ministro (unico titolare della fiducia delle Camere, con il potere di nominare e revocare i ministri e di sciogliere la Camera dei Deputati), creando un ibrido tra forme di governo parlamentare e presidenziale. Ciò che invece la riforma in discussione ci propone è di superare il bicameralismo paritario, introducendo nel Senato la rappresentanza delle istituzioni territoriali (“le Regioni devono avere la loro rappresentanza in seno al potere legislativo, devono avere la possibilità costituzionale di portare la loro voce là dove si legifera”, Mannironi 6 settembre 1946); di rivedere, di conseguenza, il procedimento legislativo, differenziandone lo svolgimento per tipologie di leggi; di attribuire al Senato il compito di eleggere due giudici costituzionali (significa che per la prima volta le Regioni sceglieranno due componenti dell’organo che controlla le legittimità delle leggi regionali!); di affidare il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento alla sola assemblea legislativa di diretta rappresentanza dei cittadini; di limitare la decretazione d’urgenza del Governo, introducendo procedure legislative ordinarie ‘a data certa’. Non si cela in queste norme il rischio di una predominanza del Governo sul Parlamento, come taluni teme, ma piuttosto si attribuiscono funzioni e responsabilità chiare a chi deve poi rispondere agli elettori del proprio operato.
Vorrei ricordare che i Costituenti, nello svolgere il complesso lavoro di definizione dell’organizzazione costituzionale dello Stato, si posero fin da subito il problema del difficile equilibrio tra Parlamento e Governo all’interno di un sistema parlamentare, a partire dall’ “esigenza preminente dei regimi democratici moderni di dare forza, stabilità e autorità al potere esecutivo; perché l’instabilità dei Governi è il danno peggiore che possano lamentare i vari paesi, in quanto ne deriva l’impossibilità di seguire una linea logica, di svolgere un programma coerente che risponda alle esigenze del Paese, e quindi il discredito di una democrazia” (Mortati, 3 settembre 1946). Lo stesso Piero Calamandrei, che anche Trento si appresta a ricordare nel 60° della morte, aveva sostenuto con forza che “la democrazia, per funzionare, deve avere un governo stabile. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato” poiché “le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dalla impossibilità di governare dei governi democratici” (5 settembre 1946). Il malvezzo di diffidare degli strumenti che aiutino un governo a governare forse dovremmo abbandonarlo…
Quanto alle numerose critiche sollevate in questi mesi sia sull’impianto complessivo della riforma, sia sul linguaggio faticoso che ne caratterizza alcuni passaggi (ad esempio, l’assegnazione delle nuove funzioni al Senato), è curioso osservare come già i Costituenti ed i loro contemporanei fossero intervenuti severamente a commento del testo costituzionale. Piero Calamandrei, in apertura del suo famoso discorso del 4 marzo 1947, si rivolse all’Assemblea dicendo che il progetto di Costituzione “non è un esempio di bello scrivere: manca di stile omogeneo, direi quasi che manca di qualsiasi stile”. Carlo Fusaro – nella sua Guida alla riforma costituzionale 2016 in www.carlofusaro.it- ci offre un interessante riepilogo di questi commenti sferzanti: “Critiche impietose contro la Costituzione furono espresse, con varietà di accenti e per le ragioni più diverse, da personalità come Piero Calamandrei (manca di chiarezza), Benedetto Croce (manca di coerenza e di armonia), Arrigo Cajumi (è prolissa, confusa, mal congegnata; è nata da una coalizione di interessi elettorali), Antonio Messineo (non è un capolavoro di arte giuridica; manca la certezza del diritto, ci sono gravi imperfezioni), Vittorio Emanuele Orlando (abbisogna di essere completata in parti essenziali), Alfonso Tesauro (è frutto del timore reciproco dei partiti), Luigi Sturzo (solo da noi il Senato è un duplicato della Camera), Francesco Saverio Nitti (fu preparata da uomini che non avevano nessuna pratica di costituzioni, conoscevano assai poco gli argomenti che dovevano trattare, non erano quasi mai stati all’estero...), Arturo Carlo Jemolo (non amo la Costituzione perché piena di espressioni che non hanno nulla di giuridico; apprezzo di più la secchezza, oserei dire la serietà, dello Statuto albertino). Su tutti si distingue il giudizio senz’appello di Gaetano Salvemini (il cui caratteraccio e il cui radicalismo erano peraltro proverbiali). In una lettera all’allievo e amico Ernesto Rossi (col quale pure ebbe poi a litigare) scrisse addirittura nel 1947: «Ho letto il progetto della nuova costituzione. E’ una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi questo mostro di bestialità...»”.
Tornando quindi rasserenati al testo della riforma, che pure richiederebbe ben più di questi appunti scarni per essere analizzato compiutamente, mi sento di condividerne una valutazione sostanzialmente positiva. Gli elementi di incertezza, legati sia alla necessità di adottare norme attuative (la legge elettorale del senato, i nuovi regolamenti parlamentari, la legge sul referendum propositivo), sia alla complessità di alcune innovazioni istituzionali (Senato delle Regioni), non sono così lontani dagli elementi di incertezza che caratterizzarono l’attuazione della Costituzione del ’48: servirono cinque anni per istituire la Corte costituzionale, quattordici anni per ammettere le donne ai concorsi di magistratura, ventitrè anni per istituire le Regioni… Ogni cambiamento ha bisogno di tempo e di duro, paziente lavoro. Se i cittadini, come spero, diranno il loro sì al cammino avviato dal Parlamento con questa riforma, avremo la possibilità di sperimentare nuovi strumenti per rafforzare la nostra democrazia e per restituire fiducia nelle istituzioni repubblicane e nella loro azione.
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