A chi è giustamente preoccupato che la riforma costituzionale, che sarà sottoposta al voto dei cittadini nel referendum di autunno, non stravolga la nostra bella Costituzione, va detto innanzitutto che la riforma non è una trasformazione radicale della nostra Carta.
Michele Nicoletti, "Il Dolomiti", 3 settembre 2016
La riforma non tocca il “cuore” della Repubblica, ossia i suoi principi fondamentali, i diritti e i doveri dei cittadini, la divisione dei diversi poteri e le loro funzioni (magistratura e funzioni del Presidente della Repubblica non vengono modificate). Viene riconfermata anche la forma di governo, ossia quella di una democrazia parlamentare in cui il Governo, dopo le elezioni e l’incarico da parte del Presidente della Repubblica, riceve la fiducia dal Parlamento. I poteri del Presidente del Consiglio rimangono quelli attuali, a parte la possibilità di richiedere su alcuni provvedimenti un voto entro una “data certa” da parte del Parlamento per evitare inutili lungaggini o il ricorso smodato alla decretazione d’urgenza. Ma se il Governo avrà questo piccolo potere in più, anche l’opposizione avrà il suo status riconosciuto e i suoi diritti.
Dunque che cosa cambia? Cambia la natura e il ruolo del Senato. Solo in Italia abbiamo un Senato che fa le stesse cose della Camera. E questo non aiuta ma complica la soluzione dei problemi. Nell’Unione Europea non c’è un altro parlamento che vota la fiducia al Governo nei suoi due rami. Negli ultimi anni è spesso capitato che il Governo avesse la maggioranza alla Camera ma non al Senato, per via di un sistema elettorale differente. Un risultato davvero paradossale dato che tutte e due le Camere dovrebbero rappresentare la volontà degli stessi cittadini. Questa situazione non ha affatto rafforzato la democrazia in Italia – intesa come governo della volontà del popolo – ma semmai la ha indebolita, creando dei governi instabili e spesso pletorici. Lo stesso processo legislativo, dovendo far approvare lo stesso testo sempre e necessariamente dalle due Camere, è lento e farraginoso: anziché migliorare la qualità, spesso si raddoppiano i compromessi per accontentare tutti, in una logica al ribasso.
Di qui la decisione di creare un nuovo Senato fatto di consiglieri regionali e sindaci. Non si tratta di “nominati”, ma di persone elette dai cittadini nelle loro istituzioni che saranno scelti da queste per portare la voce dei territori nella politica nazionale, decidendo alla pari della Camera sulle materie costituzionali e ordinamentali, e svolgendo una funzione fondamentale di proposta di miglioramento, di controllo e di verifica dell’impatto delle politiche europee e nazionali sulla vita concreta delle persone. In questo quadro le Regioni ordinarie vedono riconosciuto un nuovo fondamentale ruolo “politico” anche se sul piano amministrativo sarà solo lo Stato, diversamente dal passato, a legiferare su materie di evidente interesse nazionale come l’energia o il coordinamento della politica commerciale o turistica con l’estero.
Le Regioni e le Province speciali vedono invece riconfermata la loro autonomia “speciale” e dunque la funzione particolare che svolgono di “integrazione” di minoranze linguistiche e di presidio di territori di “cerniera”. Non solo: la revisione degli Statuti speciali – che oggi può avvenire per decisione unilaterale del Parlamento nazionale – si potrà fare solo attraverso un’”intesa” tra lo Stato e l’autonomia speciale interessata. Dunque nel nuovo testo l’autonomia del Trentino non solo viene ampiamente riconosciuta e rappresentata nel nuovo Senato, ma anche rafforzata. Un motivo in più per votare “sì” al referendum.