La partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche va istituzionalizzata. Solo così è possibile assicurare che la partecipazione sia trasparente e imparziale. Nicola Lugaresi ha espresso sul Corriere del Trentino di mercoledì scorso la sua viva preoccupazione per il basso livello di partecipazione manifestato da una serie di iniziative promosse dal Comune di Rovereto e da altri soggetti.Alessandro Branz, "Corriere del Trentino", 30 agosto 2016
Si tratta di preoccupazioni fondate e condivisibili, che da un lato sollecitano una riflessione sulle cause del fenomeno (individuate da Lugaresi nell’ormai diffuso «sentimento di rassegnazione e sfiducia» nei confronti della politica), mentre dall’altro richiamano ruolo e funzionalità degli stessi meccanismi partecipativi adottati, che evidentemente presentano delle lacune se non riescono a coinvolgere più di tanto i cittadini. Ed è proprio da quest’ultimo punto che vorrei partire per alcune brevi riflessioni.
Innanzi tutto va osservato che il termine «partecipazione» è ambiguo e può essere declinato in modi molto diversi. Si partecipa protestando a un sit-in, firmando una petizione, iscrivendosi a un partito politico o a un’associazione, mobilitandosi in occasione delle campagne elettorali o referendarie, e via dicendo: si ha però vera partecipazione «politica» solo quando il cittadino sa di poter influenzare le scelte pubbliche e di poter incidere sui processi decisionali. Il che non è detto avvenga sempre: può anche darsi che la scarsa partecipazione sia motivata proprio dal fatto che il cittadino si rende conto della natura meramente consultiva e poco incisiva della proposta su cui deve intervenire.
Tale problema richiama la necessità di «istituzionalizzare» la partecipazione, conferirle una veste formale, quindi prevedere procedure che favoriscano uno stretto collegamento tra partecipazione e decisione pubblica. So benissimo che la questione ha sempre sollevato (e solleva tuttora) polemiche e perplessità, dovute al timore di manipolazioni e distorsioni, ma sta di fatto che solo in questo modo è possibile assicurare che la partecipazione non sia fine a se stessa e sia caratterizzata da trasparenza, imparzialità, apertura, una dotazione minima di informazioni e soprattutto il suo inserimento in un effettivo processo decisionale.
In tal senso esistono e si sono affinate nel tempo metodologie e modalità di coinvolgimento che consentono ai cittadini di confrontarsi, discutere, scambiarsi opinioni e giudizi su una determinata questione pubblica o su un problema collettivo, raggiungendo auspicabilmente una soluzione condivisa della quale poi le istituzioni pubbliche dovranno comunque tener conto (anche motivando, se necessario, l’eventuale non accoglimento).
Così i cittadini contano e si sentono protagonisti: ne abbiamo degli esempi sia in Italia, ove queste pratiche sono diffuse ormai da qualche anno e dove esiste una legge apposita, quella toscana, che prevede il fattivo sostegno della Regione ai processi partecipativi locali; sia a livello internazionale, dove i cittadini vengono coinvolti sui più svariati temi pubblici, dalla pianificazione territoriale e urbanistica ai temi etici, dalle questioni ambientali ai problemi legati alla salute e all’educazione, per non dimenticare i casi quanto mai attuali dell’Irlanda e dell’Islanda che hanno coinvolto i cittadini nella riforma della Costituzione, nonché i casi delle Province canadesi della British Columbia e dell’Ontario (imitate successivamente dall’Olanda) che lo hanno fatto sul tema della riforma del sistema elettorale.
E qui, credo, vi sia anche una questione di volontà politica. Mi chiedo: perché sugli scottanti temi della riforma costituzionale ed elettorale non si è aperto in Italia un ampio e diffuso dibattito con e tra i cittadini, limitandosi invece a un uso strumentale del «popolo», funzionale a una sola delle opzioni sul tappeto? E perché il Trentino non si avvale della sua autonomia per programmare un percorso che conduca a una legislazione più attenta al valore e alla qualità della «partecipazione»?
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