«Voterò sì, ma il mio sarà un sì critico». Alessio Manica esprime una posizione non marginale all’interno del Pd sul referendum costituzionale. Il capogruppo dei democratici non nasconde le proprie perplessità sulla riforma, in particolare sull’impianto centralista, e sull’opportunità di proporre il quesito come un plebiscito pro, o contro Renzi.T. Scarpetta, "Corriere del Trentino", 23 agosto 2016
Tuttavia, un po’ per disciplina di partito, un po’ perché «l’Italia non può permettersi di fermarsi ancora una volta», Manica non farà mancare il suo voto al Pd.
Consigliere, Bruno Dorigatti ha già fatto sapere che voterà «no» al referendum. Si sa che anche lei non è entusiasta. Cosa voterà?
«Voterò sì. Tuttavia, ritengo che il Pd non possa affrontare questo importante appuntamento con uno spirito da marketing aziendale. Ho la pretesa di ritenere che gli elettori del Pd siano persone intelligenti cui non dobbiamo vendere un prodotto, ma spiegare perché è meglio votare sì».
Proviamoci. Lei perché lo farà?
«I motivi sono diversi. Il principale è che l’Italia non può permettersi di ripiombare nel caos dal quale sta faticosamente emergendo. Non ci possiamo fermare di nuovo e, piaccia o non piaccia, il referendum rappresenterà un banco di prova importante per il Pd».
A lei piace, o non piace?
«Per nulla, credo sia stato un errore dare a un quesito referendario di natura costituzionale il sapore del voto per, o contro il premier».
E come valuta il dietrofront sull’ipotesi di dimissioni in caso di vittoria del «No»?
«Positivamente. Ravvedersi di un errore è sempre una cosa positiva».
Tornando al referendum, non è che lei stesso rischia di cadere nel «tranello» del voto per o contro il governo?
«No, ci sono altri motivi per votare sì. Il primo è che si supera il bicameralismo perfetto. È un obiettivo che ci eravamo già dati ancora con Prodi e che bisogna raggiungere per il bene del paese».
Non teme, come sostengono alcuni, che la vittoria del «Sì» esporrebbe il paese al rischio di qualcosa di simile a una dittatura?
«Ma no. È vero che si va verso una minora partecipazione, ma questo non dipende certo dalla riforma, ma da una situazione generale. La preoccupazione che alcuni manifestano deriva dal combinato disposto di riforma costituzionale e legge elettorale, che sono però cose diverse».
Lei che opinione ha dell’Italicum?
«È evidente che i problemi di partecipazione di cui sopra non si risolverebbero nemmeno con un proporzionale puro senza sbarramenti. Avremmo solo più confusione e ingovernabilità. Non nascondo, però, che l’idea del primio di maggioranza al singolo partito, montata dopo il successo delle europee, non mi convince. Su questo, la penso come la minoranza nazionale e credo si dovrebbe modificare la legge per dare il premio di maggioranza alla coalizione. La società italiana è una realtà plurale».
Cosa le piace meno di questa riforma?
«L’impianto centralista. È vero che, tecnicamente, la clausola dell’intesa è migliorativa per la nostra autonomia. Questa concessione, però, cade all’interno di un generale riaccentramento dei poteri dalle Regioni allo Stato. Quando dovremo rivedere lo Statuto e ci occuperemo di energia, siamo sicuri che lo Stato concederà alle sole speciali di gestirla autonomamente?».
Non condivide l’idea di Ugo Rossi e del Patt di una trattativa prima del voto?
«No. Sia perché non si può votare una riforma costituzionale solo perché conviene a noi, sia perché è una strada impraticabile: nessuno sa oggi con quale governo tratteremo la revisione dello Statuto».
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