TRENTO Una riforma dall’impianto valido, sulla quale esprime un giudizio positivo. Per Franco Rella, filosofo e saggista, l’abolizione del bicameralismo perfetto è «fondamentale per uscire dalla stagnazione», la modifica del testo costituzionale importante per dare il via a cambiamenti più complessivi.
E. Ferro, "Corriere del Trentino", 25 agosto 2016
Necessari per «Governare nelle contemporaneità», come il titolo dell’incontro cui parteciperà domani alle 18 nella Sala degli specchi a Rovereto, introdotto da Elisa Filippi (Il Trentino che dice sì) e moderato dal caporedattore del Corriere del Trentino Simone Casalini.
Governare nelle contemporaneità cosa significa?
«La globalizzazione è entrata in crisi, sia dal punto di vista economico che della capacità di gestire i fenomeni che aveva messo in atto, dalla libera circolazione di merci e capitali a quella delle persone. La domanda cruciale riguarda dunque la capacità delle forme di governo di intervenire su questo processo e di governare il mondo: la risposta della Brexit è chiara, il popolo inglese non si fida più, e l’ascesa di movimenti populistici sottolinea in maniera decisa l’importanza crescente della questione».
In tale contesto la riforma costituzionale che ruolo potrà giocare?
«Sarà il termometro della capacità di cambiare e dare risposte adeguate alla velocità degli eventi e delle trasformazioni di fronte ai quali ci troviamo, non solo dell’Italia, ma complessivamente anche di un’Europa ingessata».
Qual è il suo giudizio?
«Ritengo fondamentale l’abolizione del bicameralismo perfetto. Che le decisioni, oggi, siano così rallentate è indice di stagnazione: le unioni civili, ad esempio, erano all’ordine del giorno da più di vent’anni, fra i primi punti anche del governo Prodi nel 2006, per far passare una legge, pure monca, si è arrivati al 2016 con un voto di fiducia. La capacità del nostro Paese di fornire risposte adeguate potrebbe anche far aumentare la sua autorevolezza nel contesto europeo, ugualmente paralizzato, ancorato ad alcune norme di venti o trent’anni fa senza riuscire a darsi una prospettiva politica: mettere in moto processi di mutamento anche solo in uno Stato potrebbe diventare una spinta a cambiamenti più complessivi».
Il superamento del bicameralismo paritario non le sembra sia stato perseguito in modo confuso, con la creazione di un ente ibrido le cui regole elettive, ad esempio, sono ancora da stabilire?
«L’ordinamento regionale fissato nel 1948 è stato realizzato nel 1970, la Corte costituzionale ha cominciato a deliberare nel 1955: la stessa Costituzione ha demandato all’elaborazione successiva capitoli molto importanti, non mi sembra un aspetto drammatico. Certo nella riforma permangono aspetti da definire meglio, ma ciò che conta è che non si tratta di un attentato ai valori costituzionali, bensì di una modifica dei meccanismi di funzionamento che di funzionare non sono in grado».
Non teme che la riforma più la legge elettorale presenti un rischio «autoritario»?
«Questa è un’affermazione che sfiora il grottesco. Per l’elezione del presidente della repubblica o degli organi di garanzia servirebbero più voti di quanti ne siano necessari adesso. L’Italia, inoltre, ha poteri di controllo che nessun’altro possiede, dalla Corte costituzionale a una magistratura potentissima, dai giornali indipendenti alle televisioni».
Dopo anni di valorizzazione del regionalismo non le pare si ritorni a una centralizzazione del potere?
«Le sembra legittimo che una regione stabilisca che lo stipendio del suo governatore sia più alto di quello di Obama o che lo Stato non possa far prevalere un interesse generale maggiore? Il giusto decentramento regionalistico ha dimostrato di non saper funzionare sempre, qualche correttivo doveva essere apportato».
Cosa succederebbe, secondo lei, se vincesse il «no»?
«Inizierebbe un processo ulteriore di degrado e decadenza della politica. Sarebbe il trionfo dei Salvini, che vanno in giro con la bambola gonfiabile, oppure del Movimento 5 stelle, ulteriore forma di populismo. Anche il tentativo della destra di diventare un polo alternativo con Stefano Parisi finirebbe per sfaldarsi in seguito al fallimento del Pd».
Non crede che anche puntare tutto sulla questione del risparmio e dei costi della politica sia un atteggiamento populista?
«Certo. Non si tratta di un argomento politico, piuttosto da pentastellati. Ma un voto che si esprime con un “sì” o con un “no” ha una forte componente emozionale, non solo razionale. Così come dire che la riforma prelude a una dittatura. Si tratta di elementi che fanno leva su forme populistiche: mia spiace sia così, ma è quasi inevitabile».