Per le Regioni ordinarie la riforma introduce una complessiva forte centralizzazione, pur consentendo un maggiore potenziale di differenziazione tra le diverse Regioni. Per quelle speciali, invece, l’autonomia è garantita e ulteriormente rafforzata, aumentandosi così di molto la distanza (già da tanti criticata) tra le Regioni ordinarie e quelle speciali.
Francesco Palermo, 27 agosto 2016
Il comma 13 dell’art. 39 della legge costituzionale (dunque una disposizione transitoria) stabilisce che “le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale (dunque i nuovi articoli 114-126 della Costituzione) non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”. La formulazione è contorta e frutto di lunga mediazione parlamentare. Essa significa in sostanza che le nuove regole (che indubbiamente ridimensionano i poteri delle Regioni ordinarie) non si applicano alle Regioni speciali. Né si applicheranno mai, perché con la prevista “revisione dei rispettivi statuti” saranno i nuovi statuti a definire in dettaglio le competenze delle Regioni autonome. Il contenuto di tale revisione è affidato alla negoziazione tra la singola Regione speciale e lo Stato. Ciò che la disposizione non spiega è come tale negoziazione della avvenire. Per lo Stato pare evidente per analogia che il soggetto negoziatore sarà il Governo: il Parlamento potrà solo accettare o bocciare l’intesa raggiunta. Per le Regioni non è stabilito chi debba negoziare. Ma soprattutto non è specificata la portata giuridica della prevista intesa: nel nostro ordinamento le intese sono atti concordati, per cui il veto di una parte porta alla mancata approvazione. Ciò significherebbe che (come per le disposizioni finanziarie di molti statuti speciali) senza l’intesa non si modifica nulla. Per contro, gli statuti speciali sono leggi costituzionali, sulle quali l’ultima parola, al termine di un procedimento rafforzato di approvazione, spetta al Parlamento, unico titolare del potere di revisione costituzionale. Vi è dunque chi ritiene che l’intesa non possa rappresentare un veto assoluto, ma che vada procedimentalizzata, e regole sul punto andranno approvate a seguito della riforma costituzionale. Resta il fatto che attualmente l’intesa non è prevista e il Parlamento potrebbe unilateralmente modificare d’imperio gli statuti speciali (ferme restando le garanzie internazionali, come l’accordo Degasperi-Gruber), e quindi qualsiasi forma assuma l’intesa si tratta di un rafforzamento giuridico dell’autonomia speciale.
La disposizione transitoria prevede poi una seconda parte, non meno importante e non meno linguisticamente contorta, il cui significato può così riassumersi: a) anche senza revisione degli statuti, le Regioni speciali possono acquisire le competenze “differenziabili” attualmente previste per le sole Regioni ordinarie dall’art. 116 c. 3 (giudici di pace, politiche sociali, tutela dell’ambiente), con apposita legge adottata a maggioranza assoluta sulla base di intesa tra Stato e Regione interessata – una estensione importante perché si tratta dell’unica disposizione dell’attuale Titolo V (che continuerebbe a vivere per le sole Regioni speciali) attualmente non applicabile a tali Regioni; b) dopo la revisione degli statuti si applicherà alle speciali il nuovo 116 c. 3 (potenzialmente ancor più favorevole), e ciò rappresenta l’unico vincolo di contenuto già previsto rispetto a tale revisione; c) in caso di grave dissesto finanziario i Presidenti delle Regioni speciali e Province autonome non potranno essere rimossi dal Governo come invece può accadere per quelli delle Regioni ordinarie.
Ne emerge insomma un quadro che rafforza le autonomie speciali e ne acuisce la distanza rispetto a quelle ordinarie, e ciò rappresenta un elemento di forte critica alla riforma da parte di molti (in politica e in dottrina). La tutela della specialità è declinata in chiave difensiva (e non poteva essere altrimenti in una riforma che riduce l’autonomia regionale ordinaria) ma ciò che manca è una visione d’insieme della specialità in Italia. La chiave di volta del sistema sarà la revisione (si badi: revisione, non ‘adeguamento’, come inizialmente previsto) degli statuti speciali, ed è facile ipotizzare che per alcune Regioni (specie la Sicilia) ciò si tradurrà in una sostanziale eliminazione della specialità, mentre per altre (specie il Trentino-Alto Adige) in un suo rafforzamento. Ma tutto questo dipenderà in prima battuta dalla qualità delle proposte di revisione che verranno dai territori e poi dalla capacità di negoziazione con lo Stato. In assenza di revisioni è per contro probabile che in via giurisprudenziale il margine di autonomia possa essere lentamente eroso nel quadro di un sistema più centralizzato.