La semplificazione dettata dai "tempi moderni" è davvero incredibile. Galleggiando sulle notizie di stampa di questi giorni, parrebbe quasi che la riforma della scuola trentina – quarantasette articoli, venti soggetti auditi, sette sedute di discussione in Quinta commissione, cinque giorni d’Aula, decine di ordini del giorno – abbia avuto come fulcro l’introduzione o meno delle divise; e che il lungo dibattito, le fitte riunioni, finanche gli scioperi e le manifestazioni fermentati attorno ad essa, abbiano riguardato solo poche questioni, spicce e marginali.
Lucia Maestri, "Trentino", 15 giugno 2016
Eppure la vera innovazione di questa legge non riguarda l’estetica e i grembiuli (peraltro confinati in un ordine del giorno che non impone proprio niente a nessuno), ma invece tocca l’etica della responsabilità, della valutazione, del merito nell'insegnamento. Come ho voluto sottolineare nel mio intervento in Aula, costitutivi di questo testo sono i termini «autonomia», «scelta», «responsabilità», «valutazione», «merito». Parole che a ben guardare altro non sono se non i caratteri del nostro tempo, concetti che non potevano e non dovevano rimanere ancora estranei alla scuola. Di fronte a questi termini e alle implicazioni che vi sono connesse, si poteva reagire in due modi.
Scegliendo un approccio che vedeva prevalere il disagio della discontinuità, la preoccupazione e forse anche la paura verso la novità; oppure con uno spirito che pur tenendo i piedi ben saldi a terra, decideva di abbracciare la necessità, il desiderio dell'innovazione, dell'avanzamento, della sfida. Il Partito Democratico ha scelto questa seconda strada. E lo ha fatto pensando al senso ultimo del testo che voleva contribuire a migliorare e approvare: quello di formare ragazze e ragazzi che vorremmo possedessero le chiavi più adatte per accedere ad una vita che non fa sconti. Lo abbiamo fatto senza cavalcare battaglie o situazioni, lo abbiamo fatto – come partito e maggioranza di governo – prendendoci l’impegno di costruire, una parola alla volta, la massima sintesi possibile tra opinioni. Anche tra opinioni diverse, ma sempre all’interno di un quadro di obiettivi, valori, strumenti, che intendevamo e intendiamo inverare e praticare.
Il capitale umano che cresce dentro la scuola – una scuola intesa come luogo di realizzazione e di costruzione di sé, dell'identità della persona – non può che essere in costante relazione con la comunità nella quale vive, con la quale interagisce e nella quale opera. L’autonomia scolastica sulla quale molto si è scritto e detto – e, consentitemi, tanto anche a sproposito – non è affatto un’identità “impermeabile”, racchiusa nelle onnipotenti prerogative di un “leader educativo”. E’ invece declinata come il diritto/dovere di ogni scuola di offrire una prerogativa di identità culturale e progettuale. Una possibilità alla quale corrisponde la presa di responsabilità di chi propone un progetto formativo qualitativamente elevato, competitivo e originale, differenziato fra scuola e scuola, che permetta a ragazze, ragazzi e famiglie di poter scegliere.
L'esercizio dell'autonomia è infatti soprattutto esercizio della responsabilità, ed è in questo senso che va letto anche il diritto di chiamata e di scelta del dirigente. Una prerogativa che non viene affidata a caso, ma dentro le maglie di un progetto educativo di istituto, condiviso, chiaro negli obiettivi, nelle metodologie didattiche, discusso con il collegio dei docenti. Lo stesso dicasi per le modifiche apportate ai progetti di scuola-lavoro. Progetti che possono rappresentare una straordinaria palestra per i ragazzi per imparare a conoscere e riconoscere le loro inclinazioni, articolare le proprie competenze, per riconoscere ruoli e responsabilità. Occasioni di crescita che, per essere utili davvero, dovevano consentire a chi vi partecipa di toccare con mano la fatica della responsabilità, muovendosi lontano dall’ambiente protetto dell’istituto, e affacciati invece alle dinamiche del mondo esterno.
Ora è possibile, com’è possibile una maggiore contaminazione con le arti, con il mondo della cultura intesa come occasione lavorativa, professionalizzante e imprenditoriale. L’elenco sarebbe lungo e potrebbe continuare. Dovrà continuare. Perché di questo è bene parlare. Non di divise e grembiuli che nessuno sceglierà mai di adottare. Scommettiamo?