L e riforme sono utili se orientano i comportamenti collettivi, se segnano il passaggio tra un prima e un dopo, se riflettono distinte visioni di un modello di Paese. Non si tratta di mere tecnicalità istituzionali, ma di un modo di essere e di funzionare delle Istituzioni medesime.
Alessandro Olivi, "L'Adige", 11 giugno 2016
Quando Meuccio Ruini, il Presidente della Commissione dei 75 che scrisse la Costituzione poi approvata dall'intera Assemblea Costituente, nel discorso finale dichiarò più volte che la Costituzione medesima non era perfetta né immodificabile ma che, anzi, in diversi punti doveva essere rivista alla luce dell'esperienza, altro non sentenziò se non la necessità di adeguare i tempi della democrazia a quelli della società che cambia. Colgo il rischio che il dibattito sulla riforma sia circoscritto ad una platea di «esperti» mentre vi è la necessità che il confronto si espanda tra i cittadini affinché si comprenda la posta in gioco.
Personalmente sono convinto che la scelta è tra un'Italia che si dimostra capace di riformare le proprie istituzioni rendendole più efficienti ed un Paese eternamente prigioniero del suo passato e delle sue «incrostazioni».
Il problema infatti non è difendere la Costituzione in quanto tale, ma agire affinché i principi e i valori cardine della stessa trovino applicazione piena. Serve cioè fare in modo che la politica colmi lo scarto tra Costituzione formale e materiale.
Un esempio su tutti. Per attuare in modo pieno e responsabile l'articolo 1 della Carta è necessario realizzare riforme economico-sociali in grado di difendere ma soprattutto promuovere il lavoro nel tempo della globalizzazione, dei modelli di sviluppo che cambiano imponendo la sfida della competitività, dell'inclusione sociale che va garantita soprattutto ai giovani. Le riforme strutturali richiedono sistemi di governo stabili e una «democrazia decidente». Per favorire ciò, sia chiaro, non è sufficiente il solo superamento del bicameralismo, che pure è necessario, quanto un cambio deciso di paradigma: chi governa deve avere l'opportunità ed insieme la responsabilità di considerare la decisione un'opportunità e non una minaccia per le proprie rendite di posizione.
A fronte del disegno neoliberale che si fa spazio in Europa e non solo, con rischi evidenti di derive populiste, le forze democratiche e progressiste devono accettare la sfida di coniugare democrazia con efficienza, la partecipazione con la responsabilità di una cultura del governo.
La stabilità politica è la condizione necessaria per far uscire le Istituzioni da un sistema bizantino, quello della cosiddetto «democrazia dell'emendamento», per far si che i processi decisionali vengano semplificati e conseguentemente resi più trasparenti.
Ciò serve anche a non offrire più alibi a chi non vuole cambiare lo status quo, a chi scommette sullo stallo per difendere chi ha già rispetto a chi non ha mai avuto.
La «democrazia decidente» non è in contraddizione con la necessità di costruire sistemi bilanciati in cui chi governa risponda ai cittadini del suo operato.
Dure ulteriori considerazioni.
La prima per dire che la riforma costituzionale è coerente con la storia e i valori della sinistra riformista.
Ecco perché il Partito Democratico anche in Trentino deve guidare questo processo, se serve anche per migliorarlo, sintonizzando le ragioni della riforma con il sentire comune dei cittadini, delle imprese, dei lavoratori, facendo comprendere che l'alternativa è la deriva conservatrice, la difesa di interessi particolari, la cultura del rinvio e l'autolesionista sindrome del «minoritarismo» permanente.
Senza la spinta innovativa del Pd vinceranno le forze del populismo, l'alleanza eterogenea del No, l'idea di un Trentino schiavo del localismo.
La seconda attiene alla questione del rapporto tra Stato e Comunità locali che interessa in prima battuta il presente e il futuro della nostra Autonomia.
Io credo che, anche in forza dell'Intesa inserita nella riforma grazie al prezioso lavoro dei nostri Parlamentari (e all'attenzione dimostrata dal Governo), per il Trentino questa riforma possa essere un'opportunità. Ma dipende da noi.
Innanzitutto vi è la possibilità di realizzare una delle tesi cardine del progetto per l'Ulivo che al punto n. 4 del manifesto recitava: «Il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza».
Ma soprattutto siamo di fronte ad una sfida nuova: promuovere il valore dell'autogoverno all'interno di un modello realmente cooperativo tra interessi nazionali e peculiarità territoriali.
La strada è quella di partecipare al nuovo Senato con un ruolo forte e consapevole, esserci per far conoscere e diffondere la cultura dell'autonomia dando voce al pluralismo delle comunità locali, costruire un sistema di regionalismo differenziato e del merito.
È il contrario della logica della rivendicazione, del mettersi in fila per strappare l'emendamento dell'ultima ora proprio dell'estremismo parlamentare.
Anche per questo, in attesa che le forze locali escano dal tatticismo, spetta al Pd, nell'interesse di tutto il centrosinistra, spingere avanti le riforme, dimostrare che tra conservazione e innovazione noi abbiamo già scelto.