Caro direttore, seguo da anni il tema delle fusioni e delle forme collaborative dei piccoli comuni trentini. Da amministratore comunale ho condiviso con i colleghi il percorso che ha portato alla nascita del Comune di Castel Ivano attraverso un triplo referendum: il primo, nel 2015, ha portato alla fusione di Spera, Strigno e Villa Agnedo; il secondo e il terzo, nel 2016, per l'accorpamento di Ivano Fracena (riuscito) e di Samone (non riuscito).
Attilio Pedenzini, "L'Adige", 26 maggio 2016
La mia prima mozione, da neoeletto consigliere di minoranza a Strigno nel '96, riguardava la proposta di unione dei servizi con i comuni vicini. Dunque, ahimè, è forse lo status di veterano a spingermi a queste considerazioni alla luce dei commenti letti a margine dei risultati dei referendum di domenica. A fronte dell'ultima tornata referendaria abbiamo quattro nuovi comuni e sette referendum dove la fusione non ha avuto successo. Tralasciando il dato delle fusioni complessivamente realizzate negli ultimi anni, tanto è bastato alla politica provinciale per indicare il fallimento di un disegno complessivo «calato dall'alto». Ora, non è mio interesse difendere Rossi o Daldoss, per carità, mi preme però difendere la mia dignità di amministratore e di cittadino, e come la mia quella dei tanti che si sono impegnati su questo fronte. Quel «calato dall'alto» infatti presuppone che sotto ci siano, a cascata, amministratori comunali proni alle logiche del potere provinciale e, a seguire, cittadini e cittadine che pendono acriticamente dalle labbra dei loro amministratori compiacenti.
Mi dispiace deludere qualcuno ma le cose non stanno così. Ho visto amministratori e cittadini lavorare insieme, con entusiasmo e passione, al nostro progetto di fusione perché credevano, e credono, nella bontà della proposta; ho visto sindaci appena eletti o rieletti accettare la fine anticipata del loro mandato nel nome di una visione di futuro e di servizi migliori (per esempio un ufficio anagrafe non costretto a chiudere se si ammala l'unico addetto). Se crediamo davvero che tutto ciò sia frutto della ragion di stato o dei contributi regionali, tra l'altro di gran lunga inferiori a quelli nazionali, allora siamo sulla strada sbagliata.
La lettura più corretta è un po' più complessa: ogni progetto di fusione è un caso a sé, ha una sua storia fatta di legami fra le comunità, relazioni nel tessuto sociale, tradizioni e collaborazioni più o meno forti, elementi geografici del tutto peculiari. È da questi ingredienti che dipende il successo o meno della ricetta. Annullare tutto ciò nel nome della dialettica politica del Consiglio provinciale ha francamente poco senso e lascia il tempo che trova.
C'è, questo sì, un atteggiamento diverso da parte della Provincia sulle fusioni. Questa giunta, bontà sua, non si è messa di traverso di fronte alle proposte e ai progetti dei piccoli comuni. Chi c'era ricorderà il disinteresse e l'ostracismo, più o meno palese, delle legislature dellaiane. Ma vale la pena puntualizzare che Daldoss o Rossi non hanno introdotto incentivi particolari alle fusioni, che c'erano dagli anni Novanta, ma li hanno ridotti. Hanno investito il loro tempo, questo sì, per spiegare le due opzioni offerte ai piccoli comuni: la fusione o la gestione associata dei servizi. Per dare la stura al protagonismo dei territori è stato sufficiente rimuovere la «cappa» politica, piuttosto pesante, che fino al 2013 leggeva con un certo fastidio questi fenomeni.
Semmai alla politica regionale e provinciale va chiesto, e lo facciamo da tempo, un piccolo sforzo affinché le ragioni dei sì e quelle del no si confrontino ad armi pari. Si chiama quorum zero: strumento già adottato da altre regioni italiane, che consentirebbe a chi vota di decidere, in un verso o nell'altro, e a chi quel giorno va in gita a Gardaland di non far pesare in modo determinante il proprio disinteresse.