«Generazione Pd», «giovani amministratori», così fu definito il gruppo di persone che, a fine gennaio, mentre buona parte dei vertici del Pd del Trentino iniziava il confronto congressuale spostando pedine su un’ipotetica scacchiera, tentò di aprire un dibattito che mettesse al centro non l’interesse dei singoli, ma quello del partito e soprattutto del Trentino.
Elisabetta Bozzarelli, "Corriere del Trentino", 11 maggio 2016
Provammo a mettere sul piatto una serie di spunti: una riflessione su un partito autonomo, non solo dagli schemi nazionali, ma nella sua capacità di elaborare una visione del Trentino e della sua specialità; la necessità di un maggior radicamento sul territorio e nelle comunità; l’urgenza di un rinnovamento della classe dirigente, valorizzando le intelligenze diffuse in una società sempre più complessa e di difficile rappresentazione. Le obiezioni che ci furono contrapposte furono essenzialmente due, fin da subito: il fatto che fossimo sicuramente «eterodiretti» da qualcuno, probabilmente da qualche «vecchio volpone»; l’evidenza della nostra scarsa autorevolezza, in ragione della giovane età. Poco conta che fossimo tutti ultratrentenni, età che in ogni Paese moderno è considerata ampiamente oltre la gioventù; che tutti noi svolgessimo incarichi amministrativi, politici, dirigenziali nel partito e nell’associazionismo; che avessimo dimostrato chiaramente una totale autonomia da ogni sorta di corrente. Il riflesso pavloviano della maggioranza del gruppo dirigente fu di chiusura e rinserramento negli schemi dati.
È avvilente, ma questa vicenda sintetizza in modo nitido il dibattito che con coraggio e lungimiranza è stato aperto in questi giorni sul Corriere del Trentino , grazie al contributo di autorevoli protagonisti della vita economica, sociale, culturale e accademica della nostra provincia. Si sentiva forte il bisogno di una riflessione aperta sul tema della «classe dirigente», partendo da una consapevolezza che spero sia ampiamente avvertita: nel Trentino dell’Autonomia, piccolo territorio denso di competenze politiche e amministrative e con un sistema economico che mostra caratteristiche originalissime rispetto al resto del Paese, la qualità della classe dirigente è inestricabilmente legata alle condizioni per lo sviluppo e la crescita del nostro territorio.
Come ha ben detto Vincenzo Passerini, non è una questione anagrafica, ma di capacità di reale cambiamento: non va confusa, quindi, con il giovanilismo, o con una reiterata e ciclica rottamazione, concetti che nulla hanno a che fare con un’attenta riflessione sulla qualità dei gruppi dirigenti, ma che al contrario nascondono gli stessi meccanismi di autoconservazione del potere.
Ciò che si avverte, sempre di più, è la necessità di una classe dirigente rinnovata e rinnovabile, capace cioè di garantire costantemente la possibilità di un ricambio, dell’inserimento nel «sistema» di energie, competenze e intelligenze nuove. Per fare ciò, le regole sui limiti di mandato vanno benissimo, ma non possiamo illuderci che bastino. Servono pratiche virtuose e costanti di formazione, come prima cosa: scuole di pensiero e di azione, luoghi dove le generazioni più mature sappiano trasmettere le competenze a quelle che si affacciano per la prima volta alla vita pubblica. La capacità di «passare la mano» non si risolve nell’istante del passaggio di testimone: chi fa sport, per rimanere nella metafora, sa che alle spalle di quel gesto ci sono esercizi e allenamenti continui, fatti di disponibilità ad educare e capacità di apprendere.
Fuori di metafora, significa che — in politica come in ogni altro ambito — per permettere il rinnovamento della classe dirigente non basta aspettare l’esaurimento di una generazione e attendere quella successiva, ma bisogna imparare a insegnare e insegnare a imparare, aprendo spazi al nuovo, costruendo le condizioni perché il ricambio non proceda per strappi ma per lineare e naturale evoluzione. Il gruppo dirigente che non è in grado di immaginare il proprio superamento e che non opera affinché questo possa avvenire, riprendendo le osservazioni di Nadio Delai, ha già fallito e ha messo una grave ipoteca sul futuro. Ora, ci vuole un grande impegno di tutta la nostra comunità, perché se il Trentino vuole rimanere «speciale», non può permettersi l’immobilismo.