Di tutto ha bisogno l'Italia, tranne che di una nuova stagione di conflitto tra politica e magistratura. Troppi danni ha fatto al paese la stagione berlusconiana, con il parlamento, i partiti e i media impegnati a discutere solo dei processi del Cavaliere e delle leggi con le quali cercava di fermarli, perché si possa anche solo rischiare di tornare dove eravamo.
Giorgio Tonini, "L'Adige", 26 aprile 2016
Politica e magistratura devono collaborare, anche in modo dialettico, per dare all'Italia un servizio giustizia degno di un grande paese europeo: indagini efficaci, processi rapidi, carceri dignitose, il tutto nel pieno rispetto dei diritti inviolabili delle persone, in ambito penale; certezza e rapidità delle cause in ambito civile, se vogliamo attirare nel nostro paese quegli investitori che oggi evitano l'Italia anche e soprattutto a causa della lentezza e farraginosità del suo sistema giudiziario. Riformare la giustizia con questi obiettivi è anche la strada maestra per contrastare la corruzione, che oggi si annida proprio nelle pieghe di un ordinamento giuridico ipertrofico (troppe leggi, spesso di incerta interpretazione, e troppi livelli istituzionali) e di un sistema giudiziario troppo lento, che troppo spesso arriva a prescrizione prima che a sentenza. Di riforme c'è dunque bisogno e non di nuovi rimpalli di responsabilità, corredati di gratuiti giudizi morali e di inaccettabili generalizzazioni, dei magistrati nei riguardi dei politici, o viceversa.
Fu una riforma, incredibilmente dimenticata, a farci uscire da Tangentopoli, più di vent'anni fa. Una riforma della Costituzione, fortemente voluta dagli allora presidenti delle Camere, Spadolini e Napolitano, che ridimensionava in modo drastico l'istituto dell'immunità parlamentare, che fino ad allora aveva garantito l'impunità alla classe politica. Basti confrontare le due versioni dell'articolo 68: la versione originale, voluta dai padri costituenti, e quella riformata nel 1993. La prima versione stabiliva che «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale... Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile». Grazie a questi due bastioni, inespugnabili per qualunque procura e tribunale, la politica aveva gradualmente fatto della corruzione una fonte ordinaria del suo funzionamento. Tangentopoli non fu infatti un'inchiesta contro episodi, per quanto gravi e numerosi, di corruzione. Fu lo scoperchiamento (anche nella nostra Regione) di un sistema di finanziamento ordinario dei partiti e delle loro correnti, attraverso la spartizione dei proventi dalle tangenti imposte su qualunque appalto pubblico. Quel «sistema» oggi non c'è più. È stato cancellato dalla collaborazione tra magistratura e politica, che portò a quella importante riforma costituzionale. Il nuovo articolo 68 ha cancellato l'autorizzazione a procedere: salvo che per le opinioni e i voti espressi in Parlamento, deputati e senatori possono essere indagati dalle procure e processati dai tribunali come tutti i cittadini; non possono essere arrestati, perquisiti e intercettati senza autorizzazione della Camera di appartenenza, ma anche per loro si aprono le porte del carcere in caso di condanna definitiva. L'immunità è rimasta nella nostra Costituzione, come in tutte le costituzioni democratiche. Ma non è più impunità: a conferma del principio che anche la Costituzione più bella del mondo è passibile di miglioramenti, che non sono tradimenti, ma possono e devono essere perfezionamenti suggeriti dall'esperienza.
Il fatto che non ci sia più il «sistema» Tangentopoli non significa, ovviamente, che sia scomparsa la corruzione, che è anzi fenomeno vasto e diffuso, aggravato in Italia dalla presenza di forti organizzazioni criminali di stampo mafioso, dunque capaci di controllo del territorio e naturalmente protesi a cercare complicità politiche. Così come è vero che troppo pochi sono i «colletti bianchi», politici e non, condannati e puniti per aver voluto trarre profitti illeciti dalle loro funzioni istituzionali. Ma il successo di quella ormai lontana stagione, che andrebbe rivendicato e non rimosso, sia dalla politica che dalla magistratura, ci indica un metodo, valido anche oggi, il metodo delle riforme. Che devono essere ambizione e coraggiose, come quella voluta da Spadolini e Napolitano. Il governo Renzi ha fatto e sta facendo molto per dare al paese un sistema giudiziario di livello europeo e per contrastare per questa via la corruzione: è stato reintrodotto il reato di falso in bilancio, previsto quello di autoriciclaggio e disciplinati i reati ambientali, mentre è stata rafforzata la prevenzione con la costituzione dell'autorità presieduta da Cantone e stanno aumentando in modo significativo i proventi della lotta all'evasione fiscale. Si può sempre fare di più e meglio. Con il metodo del dialogo e della collaborazione, ferma restando la reciproca autonomia e la piena separazione dei poteri, tra politica e magistratura.