#Autonomia, non fermiamo i passi avanti

Porre fine, con le dimissioni del presidente Ugo Rossi, alla legislatura trentina sarebbe grave. Un delitto grave contro il Trentino e la sua autonomia, per di più con l'aggravante dei futili motivi. Non c'è infatti nessuna seria ragione di dissenso strategico tra i partiti che hanno dato vita, all'indomani della fine della Prima Repubblica, alla coalizione di centrosinistra autonomista.
Giorgio Tonini, "Trentino", 17 aprile 2016

 

Le divergenze, che pure ci sono, rientrano nella fisiologia dei rapporti tra partiti (e nei partiti) e possono e devono essere risolte: nel corretto equilibrio tra la leadership del presidente, doppiamente legittimata, prima dal voto dei militanti dei tre partiti e poi dal voto degli elettori, e la collegialità di giunta e di coalizione, nel rispetto dei pesi, stabiliti anch'essi dagli elettori, in Consiglio provinciale. Forti sono invece le ragioni per confermare e semmai rilanciare la convergenza e la collaborazione tra autonomisti, popolari e democratici (tre aggettivi, peraltro, che si attagliano a tutte e tre le principali forze della coalizione). La più importante è la comune convinzione, condivisa anche con i cugini dell'Alto Adige, che l'autonomia speciale si difende efficacemente solo in una prospettiva riformista, di cambiamento al tempo stesso coraggioso e sostenibile.

Una prospettiva che vale a Trento e a Bolzano, come a Roma. Solo chi riduce l'autonomia a "gretto cantonalismo", per dirla con Degasperi, così condannandola a deperire e ad appassire, può del resto ignorare la dimensione nazionale e perfino internazionale della nostra specialità. E considerare forme di dipendenza o di ingerenza le relazioni non solo istituzionali, ma anche politiche e partitiche che valicano i nostri confini. È su questa comune consapevolezza che, prima del voto, alla luce del sole, fu definito lo storico accordo nazionale tra il Pd e i partiti autonomisti trentini e altoatesini.

Un accordo grazie al quale il Pd nazionale, allora guidato da Bersani, riaffermava il riconoscimento non solo del fatto, ma anche del valore della nostra autonomia speciale e consentiva agli autonomisti della Svp e del Patt di uscire dalla loro prudente collocazione "blockfrei". È stato grazie a quell'accordo se la legislatura nazionale, dopo un drammatico esordio a causa della mancanza di una maggioranza elettorale al Senato, ha potuto rivelarsi una legislatura fruttuosa per il Paese e per la nostra autonomia. È stato grazie a quell'accordo infatti che il Pd ha potuto conquistare il premio di maggioranza alla Camera e porsi come asse portante di una più ampia coalizione di forze politiche e parlamentari: per eleggere due volte il Presidente della Repubblica, per dar vita prima al governo Letta e poi al governo Renzi, per realizzare il più ambizioso programma di riforme della nostra storia recente.

La più importante delle riforme approvate è certamente quella della seconda parte della Costituzione, che martedì scorso ha avuto il via libera definitivo del Parlamento e nel mese di ottobre sarà sottoposta al vaglio decisivo del referendum popolare. La riforma che porta il nome della ministra Boschi scioglie tre nodi storici del nostro sistema politico-istituzionale: riunifica in una sola camera politica, la Camera dei deputati, la funzione di legittimazione politica e, indirettamente, popolare, del governo, rafforzando così il potere dei cittadini-elettori, oggi frazionato in due camere parallele; supera l'attuale, dannosa suddivisione del parlamento in due camere equipollenti, assegnando al Senato la delicata funzione di raccordo tra il potere legislativo statale e quello regionale, come avviene in tutti i maggiori paesi europei; porta i rappresentanti delle autonomie regionali e locali in Parlamento, grazie al nuovo Senato, nel mentre riduce di un terzo (da 945 a 630) il corpo dei parlamentari nazionali.

Si possono, come è ovvio, non condividere i dettagli e gli stessi principi ispiratori che sono alla base della riforma. Ma non si può, a mio modo di vedere, contestarne il carattere compiutamente democratico, se non invocando argomenti privi di qualunque riscontro sia nel testo che nel contesto della riforma. Si dice, ad esempio, che la riforma costituzionale, abbinata ad una legge elettorale maggioritaria, assegnerebbe al premier poteri esorbitanti, fino a porre nelle sue mani la nomina dei poteri di garanzia e ad instaurare una sorta di regime. In realtà i poteri del presidente del Consiglio restano inalterati, così come i quorum necessari ad eleggere, con voto che resta segreto, Consulta e Csm (quelli per il presidente della Repubblica vengono addirittura innalzati), mentre la legge elettorale, che resta fuori dalla Costituzione, dovrà passare il vaglio preventivo della Corte costituzionale. A differenza di oggi, chi governerà dopo la riforma avrà avuto un chiaro mandato popolare, che certamente rafforzerà la sua autorevolezza, con benefici effetti per la stabilità del governo, la sua credibilità in Europa e la sua possibilità di affrontare, con le necessarie decisioni, i problemi del paese. Ma continuerà ad avere bisogno della fiducia della Camera e dovrà fare i conti con i poteri di garanzia, in nessun paese del mondo forti e agguerriti come in Italia.

La riforma costituzionale rappresenta un passo avanti anche per la nostra autonomia. Innanzi tutto per il semplice fatto di vedersi confermata e riaffermata nel nuovo scenario costituzionale. I tanti nemici della nostra specialità, presenti in modo trasversale in tutti gli schieramenti, hanno dovuto battere in ritirata. La nostra regione esprimerà quattro senatori su cento, due sindaci e due consiglieri regionali, anziché i sette attuali (su 315). La nuova ripartizione delle competenze tra Stato, Regione e province autonome potrà determinarsi solo mediante un'intesa e non per imposizione del governo. Ma quel che più conta, è che nel nuovo Senato dovremo imparare a tessere alleanze non più solo col governo, ma anche con le altre regioni. Non sarà una sinecura. Ma la conferma e anzi il rafforzamento dell'articolo 116, che prevede la possibilità di trasferire con legge competenze statali alle regioni che lo chiedano, pone le premesse per una evoluzione del rapporto tra autonomie ordinarie e speciali, all'insegna non più del risentimento, ma di una virtuosa competizione.