Un muro, una barriera. Grenzmanagement, gestione del confine per il governo austriaco, o forse gestione della politica interna, visto l’impegno ad arginare la crescita costante della destra xenofoba in vista delle elezioni presidenziali che si terranno tra pochi giorni.
Elisabetta Bozzarelli, 14 aprile 2016
Ieri sono iniziati i lavori che, in una manciata di giorni, annulleranno i sogni, le scelte, l’impegno di donne e uomini europei per un’unione che sempre più tergiversa, esita. Le barriere saranno erette per contrastare l’arrivo “massiccio” di migranti, ma dall’inizio dell’anno sono entrati da quel confine poco più di 100 persone. Allo stesso tempo non sappiamo le ricadute di tale scelta sul passaggio dei 10 milioni di veicoli e delle 40 milioni di tonnellate di merci che pure ogni anno passano di lì.
Intanto i fatti e le scelte che stanno segnando la pagina attuale di storia della nostra Europa stanno generando la tentazione di prevedere misure straordinarie, stati di eccezione, la sospensione di quelle regole fondative ed anche pienamente democratiche che hanno distinto le nuove generazioni, per quel sentirsi sempre più cittadini europei. Ma se c’è un paradigma che distingue le democrazie rispetto alla paura del terrore, è proprio quello di combattere volutamente “con una mano dietro la schiena”, di non farsi trascinare nel baratro della rinuncia alla libertà in cambio di una (illusoria) sicurezza.
Una paura, quella dello straniero, dell’avanzata del diverso, alimentata senza scrupoli e strumentalizzata politicamente, giocando con le giuste preoccupazioni dei cittadini, per ottenere consensi e conquistare scranni elettorali. Un modo di agire nell’agone politico che risponde a bisogni e angosce creati da altri, segnato da una incapacità di leggere il presente, conoscere il mondo e guardare al “dopo di noi”, ad alzare gli occhi non solo verso un orizzonte europeo oltre il Brennero ma oltre il Mediterraneo ed oltre il Bosforo.
E’ proprio ora che l’Europa deve alzare lo sguardo, alzare lo sguardo oltre i confini nazionali, non tradire le sue-nostre vocazioni originarie alla pace, alla tolleranza e all'apertura. Nei fatti stiamo smantellando il grande progetto - pragmatico ma sostenuto da grandi ideali - di Schuman, Adenauer, De Gasperi ... Ci ritroveremo tutti più poveri, invasi dalle migrazioni e con guerre impossibili da gestire, perché le politiche, quelle connesse allo stato nazionale, le vogliamo gestire da soli.
Sono da poco tornata da un viaggio in Africa per motivi lavorativi. Uganda, il paese più giovane al mondo. Poco più su il Sud Sudan, nel pieno di una guerra che nessuno si aspettava potesse durare così e che sta mettendo a rischio la geopolitica di un’area non solo “sotto altissima osservazione” per la centralità per le relazioni e reazioni degli stati vicini, ma anche per le azioni messe in campo dal fondamentalismo islamico. E così si può continuare ad ampliare il racconto di un’Africa che “bolle” e di un’Europa, di un mondo, che ne rimane distante se non per i propri interessi: ma questa sarebbe un’altra storia. Riprendendo il filo invece, la popolazione di questo enorme continente ad oggi di 1 miliardo e 186 milioni è destinata in meno di cinquant’anni a raddoppiare: nel 2100 si calcola che gli abitanti saranno 4 miliardi e 87 milioni (Fonte Nazioni Unite – Dipartimento economia e Affari sociali).
Se abbiamo il dovere di continuare a prenderci cura dei rifugiati o profughi - e per farlo non possiamo che pensare ad una seria rivisitazione dell’Accordo di Dublino ed accelerare il processo in atto - dobbiamo iniziare seriamente ad occuparci anche dell’altra categoria dei rifugiati, quelli economici, quelli che fuggono da fame e miseria in cerca di un futuro migliore per loro e i loro figli. Per capire meglio la grandezza del problema, dei 1.186.00.000 abitanti attuali dell’Africa circa 900.000.000 vivono in Africa sub sahariana, e di loro il 42,7% sopravvive con meno di 2 dollari al giorno (dati della Banca Mondiale), quindi sotto la soglia di povertà stabilita dall’ONU.
Quindi mentre leggete queste riflessioni ci sono 400.000.000 potenziali clienti dei trafficanti di uomini, pronti a rischiare tutto - che poi hanno da perdere solo la vita - per venire in Europa o andare in qualche altro posto del mondo dove ci siano condizioni diverse da quelle che hanno a casa loro. E il numero continua inesorabilmente a crescere.
Quante barriere dovremo costruire? Quanti “Brenneri” ci vorranno per capire che i fenomeni non si fermano con un muro? Come si può fermare tutto questo? Io sono convinta che niente può impedire di mettersi in cammino a un disperato che sogna di uscire dalla miseria, se non il fatto di realizzare il suo sogno dove già si trova. Gli sforzi vanno indirizzati verso l’Africa, verso i Paesi in guerra, facendo anche una seria autocritica di come si è intervenuti in Medio Oriente. Inoltre, in un momento di ristagno per la nostra economia, dovremmo cogliere l’occasione e favorire gli investimenti delle nostre imprese in Africa, (investimenti etici, puliti ed efficaci) per dare occupazione agli africani e perché no, un respiro internazionale e un po’ di utili al nostro asfittico mondo produttivo. Sono altrettanto convinta che lo potremo fare se l’Europa sarà capace di parlare con un’unica voce, se inizierà a compiere scelte di campo e non solo declaratorie.
Abbiamo la possibilità di anticipare la storia, di dare un senso a chi ha dato anche la vita sognando che oggi l’Europa fosse una “costruzione nuova”in cui “ogni popolo, ogni individuo hanno diritto ai beni della terra! Libertà di parola, libertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall'arbitrio dei criminali stati fondati sulla violenza: queste sono le basi della nuova Europa”. Resistenze ci furono anche in molti paesi, ma è con le parole del quinto volantino dei giovani di Monaco della Rosa Bianca, che possiamo ricordare le nostre radici e far crescere semi per una nuova unità dell’Europa delle Regioni.