La riforma del credito cooperativo è un'occasione per riaffermare il principio che ispira la nostra idea di governo del Trentino: bisogna portare la nostra autonomia in Europa, non cercare di tenere l'Europa fuori dalla nostra autonomia.
Alessandro Olivi, "L'Adige", 19 febbraio 2016
Dunque, se la Bce chiede di aggregare questa particolare categoria di banche in una logica di gruppo, anche muovendo da presupposti nei quali non ci riconosciamo, come l'insensibilità per quella che il professor Zamagni definisce la «biodiversità bancaria», bene hanno fatto il movimento e il Governo a collaborare con le autorità monetarie per definire un modello originale, unitario ma al tempo stesso attento alle peculiarità territoriali. Questa ambivalenza è l'anima della riforma.
Da un lato, sarà possibile per le autorità monetarie europee esercitare un controllo più efficace, concentrato su un polo omogeneo di dimensione significativa (il gruppo), a tutela dell'equilibrio del sistema; dall'altro si riconosce la particolare missione delle banche cooperative, legata agli scopi mutualistici, al territorio e alla proprietà diffusa, assicurando loro un margine di autonomia all'interno del gruppo, modulato in relazione al merito e al rischio. Mi pare importante sottolineare che: a) la capogruppo sarà l'unico interlocutore della Bce, soprattutto in caso di crisi, e per questa sua responsabilità la capogruppo stessa provvederà in autonomia alla gestione del gruppo; b) in caso di crisi la capogruppo potrà ricapitalizzarsi e quindi provvedere alle necessità delle banche aderenti; c) il «contratto di coesione», che premierà le banche più virtuose (con maggiore autonomia nella governance e nelle strategie) è un efficace strumento per mantenere il sistema in buona salute.
Tuttavia le impreviste aggiunte dell'ultima ora al decreto legge mettono a rischio l'impostazione complessiva del progetto. La «clausola d'uscita» dal gruppo, ossia la trasformazione in s.p.a. previo versamento di un'imposta straordinaria del 20% delle riserve, incide pesantemente sull'unitarietà del nuovo modello (indebolito dalla possibilità offerta alle realtà più solide di defilarsi) e scardina il principio dell'indivisibilità dei patrimoni cooperativi, costruiti di generazione in generazione e destinati a quelle future. In una cooperativa, infatti, i soci attuali non sono proprietari ma «usufruttuari», tant'è che in caso di chiusura il patrimonio viene devoluto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Si tratta perciò di un punto cruciale da rivedere in sede di conversione, per non minare dalle fondamenta quella che sembra, per il resto, una buona riforma. Utile appare pertanto la mobilitazione politica, in primis attraverso la delegazione parlamentare trentina, per una corretta formulazione delle nuove regole, che scongiuri il crearsi di situazioni speculative o ricattatorie, con effetti potenzialmente devastanti in prospettiva per tutti i settori della cooperazione.
Clausola d'uscita a parte, i processi omologanti sono in sé una minaccia per ogni forma di specialità, specie per le più virtuose. Tuttavia, se la cooperazione trentina saprà ritagliarsi un ruolo adeguato, la confluenza nel gruppo nazionale, oltre a non essere una iattura, potrebbe dischiudere nuove opportunità.
Anche il Trentino è infatti oberato da una massa di crediti deteriorati, che potrebbe rivelarsi utile fronteggiare all'interno di un grande contenitore; la riforma eviterà comunque il tranello del «pollo di Trilussa», cioè una disomogenea distribuzione fra le casse rurali dei valori di solidità patrimoniale, mediamente buoni ma individualmente differenziati, poiché nel nuovo gruppo il patrimonio rappresenterà una garanzia omogenea per l'insieme delle aderenti. In ambito nazionale, poi, uno dei punti di forza della cooperazione trentina, l'informatica bancaria, potrà essere ulteriormente valorizzata. Le recenti vicende di casa nostra, chiuse senza danno per i risparmiatori, mi convincono sempre più che la vera forza delle casse rurali è il gruppo: le banche troppo grandi per essere agevolmente acquisite e troppo piccole per non fallire sono le più a rischio, perché non appartenenti a un gruppo. Speriamo che questo, al di là delle modifiche al decreto legge, dissuada eccessive (ed insane) smanie di way out. Ogni riforma, in partenza, ha di fronte traiettorie alternative. Si sono studiati ed ipotizzati vari scenari, dal gruppo macroregionale a quello regionale, fino alla ricomposizione della struttura del credito cooperativo locale. Fin che ci sono margini, è giusto esplorare ogni ipotesi migliorativa. Ci sono da affrontare aspetti spinosi, come i meccanismi di eventuale ingerenza nelle strategie territoriali, soprattutto se la crisi non allenterà la presa, anche rispetto al rapporto con l'intervento pubblico locale. Non si tratta di difendere la libertà di concedere credito a chi si vuole, ma piuttosto la libertà di creare, con la collaborazione di tutti i soggetti dello sviluppo, un ambiente anche finanziario allineato alle potenzialità del territorio. L'importante è che sulle spalle della credibilità del sistema trentino non si scateni la caccia al consenso «facile», dietro bandiere agitate a sproposito. Il credito cooperativo sta costruendo una grande alleanza, che rappresenterà la coniugazione fra europeismo e «diritto alla differenza», sulla quale conviene lavorare con serietà, lasciando perdere improprie vie di fuga, magari clientelari, e magari imboccate sperando che nessuno se ne accorga.