«Un tempo, i barbari che attaccavano la civiltà venivano da fuori le mura. Oggi spuntano dal nostro stesso grembo, allevati nelle nostre case. Il barbaro è quella parte di noi a cui la città non parla, quell’anima dentro di noi che non ha trovato casa nelle sue periferie; l’anima che viene trascurata — nella vita sia personale sia comunitaria — diventa un bambino rabbioso che aggredisce la città che l’ha depersonalizzato».
Alberto Pacher, "Corriere del Trentino", 29 novembre 2015
Così scriveva, in uno dei suoi più suggestivi lavori, James Hillman, il grande psicoanalista scomparso nel 2011. Mi è venuto in mente questo passaggio vedendo scorrere nei giorni scorsi le fotografie dei giovani terroristi coinvolti nei massacri di Parigi.
Fotografie «normali», come se ne vedono a migliaia sui diversi social network, di ragazzi e ragazze fino a pochi anni o mesi prima del tutto «normali». Normali in tutto, nel vestire, nei gusti musicali, nel rapporto con i social network. Normali, soprattutto, nelle biografie, nelle storie personali così simili a quelle di migliaia di altri giovani che affollano le nostre città, le nostre periferie. Biografie nelle quali ricorrono spesso i vuoti relazionali e affettivi, l’assenza di figure paterne, un crescente disorientamento culturale e di senso, soprattutto l’assenza di un «perché» riferito alla propria vita, di un senso.
Da tale punto di vista, i giovani terroristi assomigliano molto di più ai giovani hooligans delle squadre di calcio inglesi o dell’Est europeo (ricordate Ivan, l’hooligan serbo, e i suoi atteggiamenti in occasione di Italia-Serbia nel 2013?) o ai giovani autori dei massacri nei college americani che ai mujaheddin afghani.
Sono giovani alla ricerca di un pretesto, di un contenitore capace di dare senso alla propria rabbia, frustrazione, aggressività: di dare un senso alla propria vita. Capace di dare un senso, per quanto delirante, alla fine della propria vita.
I giovani americani che periodicamente attuano il massacro rituale dei propri compagni di college — o stragi come quella di Utoya in Norvegia — e poi si tolgono la vita agiscono nello stesso spettro psicologico dei giovani di Molenbeek. Uno spettro fatto di vuoto insopportabile, di bisogno disperato di un riconoscimento, di ricerca di una storia capace di dare senso alla propria rabbia cieca.
Quello con cui abbiamo a che fare non è, almeno per quanto riguarda i terroristi di seconda generazione europei, una radicalizzazione dell’Islam, è piuttosto una islamizzazione della disperazione e della rabbia.
In una simile ottica, la leadership di Daesh ha vita facile: non occorre fare niente altro che dare un profilo di senso, una narrazione epica in cui inserire le confuse e disperatamente vuote traiettorie individuali.
Il vuoto esistenziale di questi ragazzi e ragazze — il nemico pubblico numero 1 in Europa ha 26 anni, grosso modo l’età in cui molti altri ragazzi europei vivono alcuni mesi di spensierato «Erasmus» a Barcellona o in qualche altra città europea — trova nell’interpretazione delirante della jihad data dall’Is un contesto «perfetto»: all’esasperata normatività capace di contenere la propria rabbia si affianca una valorizzazione della persona, il suo inserimento in una narrazione collettiva. Si affiancano dei simboli che marcano una appartenenza.
Sappiamo bene quanto sia pericoloso, da sempre, il dare a persone disperate un’ideologia capace di unire e orientare le tante disperazioni ed aggressività.
Contrastare il terrorismo, allora, non può che essere qualcosa in più che una «semplice» asportazione chirurgica delle nostre parti malate, dei piccoli mostri che crescono nel vuoto esistenziale e, spesso, nel brutto depersonalizzante di molte periferie europee. Vuole dire potenziare le presenze di cura, investire nelle periferie, creare dei percorsi di accesso alla speranza e al senso della vita, far sì che anche a Molenbeek o nelle banlieues parigine o nelle depresse periferie londinesi vi sia la sensazione che «si può fare», che la vita può avere un senso, che si fa parte di qualcosa. Far sì che democrazia e libertà continuino ad essere ideali a cui tendere incessantemente, ma soprattutto divengano stati d’animo individuali.
L’Europa e la coalizione fanno bene a impegnarsi per la sconfitta militare delle truppe di Daesh. Per troppo tempo abbiamo guardato con scandalizzato distacco ai massacri operati nei confronti delle popolazioni curde o degli yazidi, quando in prima linea avevamo più troupe televisive che truppe di interposizione.
Bisogna sconfiggere l’esercito dell’Is anche perché ogni sua vittoria rinforza una narrazione epica e quindi rende più accattivante la sua offerta di appartenenza e di senso. Ma bisogna soprattutto agire per rendere meno fertili i serbatoi da cui escono i futuri foreign fighters, prosciugare i pozzi di vuota disperazione da cui sgorgano i rivoli di alimentazione delle brigate fondamentaliste.
Solo così, solo favorendo la creazione di scenari di senso capaci di accogliere e di elaborare i tanti sordi vuoti esistenziali individuali, sarà possibile rinforzare la nostra democrazia: non esportandola con le bombe dei nostri aerei — l’ultima volta che si è «esportata» in maniera efficace la democrazia è stato più di settanta anni fa, con lo sbarco in Normandia — ma diffondendola in modo capillare nei quartieri delle nostre città, rendendola capace di ascoltare e di parlare anche con le voci più flebili, o più rabbiose, delle nostre periferie.