Il fuoco del terrore si combatte rimanendo uniti

Orrore, sgomento, paura, rabbia. Fin dalle prime notizie da Parigi molti hanno cominciato a provare simili sentimenti. Una violenza senza fine che anzi sembra crescere e trovare sempre una nuova malvagia creatività per colpire nel cuore dell’Europa, uccidendo persone che si stavano divertendo in un piacevole fine settimana parigino. Non erano ancora stati tolti i cadaveri dalle strade che nel mondo c’era da una parte chi esultava già per tale barbara mattanza, e dall’altra chi gridava «bastardi islamici».
Violetta Plotegher e Massimiliano Pilati, "Corriere del Trentino", 17 novembre 2015

 

Nel momento in cui scriviamo questa riflessione non sappiamo con certezza chi siano le persone che hanno compiuto la carneficina di Parigi ma siamo sicuri che l’hanno fatto con la consapevolezza di creare ulteriore conflitto tra le persone, spingendoci all’odio reciproco e, a giudicare dalle reazioni, con una parte della nostra popolazione ci stanno riuscendo. 


Seppur comprensibili, rabbia e paura non dovrebbero però portarci a cercare capri espiatori nei migranti che premono alle nostre porte. Sono persone che stanno fuggendo, vittime della stessa violenza che ha armato la follia terrorista a Parigi. Non vale neppure il nesso «terrorismo=islam», visto che in questi mesi più del 95% delle vittime dei terroristi sono musulmani; persone che si oppongono alla pazzia di simili individui pagando spesso con la propria vita. 
Ora, nelle nostre città, c’è chi invoca alla «guerra» e a intensificare i bombardamenti nelle zone di presunta provenienza dei terroristi. Noi ci troviamo davanti a due alternative: trasformare in nemico ogni straniero e in campo di battaglia ogni confine, ogni quartiere, ogni comunità dove percepiamo qualcuno minimamente diverso da noi. In un contesto simile per gli stragisti sarà semplice nascondersi e trovare legna per alimentare il loro fuoco del terrore. 


La seconda alternativa, invece, è quella di non farci piegare al volere di chi vuole trascinarci nella barbarie della paura da cui nasce odio, violenza e morte. Per farlo dobbiamo però riuscire a restare uniti, a restare umani sentendosi un unico popolo nonostante le molte differenze. Non dobbiamo prestarci al gioco del tracciare una demarcazione netta tra il «noi» e il «loro». 


«Loro» sono gli stragisti, coloro che usano le armi, ma sono anche gli stessi che le fabbricano e che bombardano «per errore» un ospedale o compiono un attentato a Beirut. Sono i finanziatori occulti dei terroristi che si arricchiscono sfruttando il dolore di migliaia e migliaia di persone. 
Il «noi» individua invece chi si sforza di convivere nelle mille differenze che caratterizzano la nostra Europa, quelli che a Parigi hanno aperto le loro porte dopo gli attentati alle persone impaurite che vagavano per strada, quelli che, pur non avendo delle risposte certe, chiedono di sperimentare altre soluzioni per la trasformazione dei conflitti quotidiani piccoli, medi e grandi che caratterizzano il nostro tempo incerto. Spesso la linea di demarcazione tra il «noi» e il «loro» non è netta. Spetta a noi sforzarci nello scegliere la via del cambiamento positivo piuttosto che alimentare l’odio. 


È dal giorno dopo il tremendo attentato alle torri gemelle di New York del settembre 2011 che il mondo «democratico» ha deciso di combattere il terrorismo bombardando. Quindici anni di follia, di vittime (nella maggior parte dei casi innocenti, pensiamo solo all’ospedale di «Medici senza frontiere»). Cecilia Strada di Emergency l’altro giorno ha scritto: «Quindici anni di bombe contro il terrorismo e il terrorismo oggi è più forte: ma ce le facciamo due domande?». Facciamocele seriamente, allora, due domande e magari cominciamo a rispondere con delle alternative alle bombe. 


Sentiamo particolarmente nostre le parole scritte in questi giorni dal movimento nonviolento che qui vogliamo condividere come punto di partenza per aprire una confronto a 360 gradi: «Già troppe volte abbiamo detto “mai più!”. Dopo la guerra del Golfo, dopo le Torri Gemelle, dopo l’attacco in Iraq, dopo gli attentati di Londra e di Madrid, dopo la strage di Charlie Hebdo, dopo quella del Bardo, dopo i bombardamenti su Libia e Siria, dopo il raid sull’ospedale di Kunduz in Afganistan, dopo il massacro all’università di Garissa in Kenya, dopo le bombe sul corteo pacifista di Ankara e oggi dopo gli attentati suicidi di Beirut e di Parigi. Piangere i morti ed esprimere solidarietà è importante, ma non basta se poi tutto continua come prima. Dobbiamo reagire. Non farci piegare dal dolore e dalla paura. Non accettare lo stato delle cose. Reagire. 


Reagire per spezzare la spirale e aprire una strada nuova. La violenza ha fallito e se perpetuata peggiorerà ulteriormente una situazione già tragica. La via da seguire è quella della nonviolenza. Sul piano personale e su quello politico. La via del diritto, della cooperazione, del dialogo, delle alleanze con chi in ogni luogo cerca la pace, della riduzione drastica della produzione e del traffico di armi, dei Corpi civili di pace per affrontare i conflitti prima che diventino guerre, della polizia internazionale per fermare chi si pone fuori dal contesto legale dell’Onu. 


Il terrorismo e la guerra (che è una forma di terrorismo su vasta scala) si contrastano con strumenti altrettanto forti, ma con spinta contraria. Siamo anche noi dentro il conflitto e lo dobbiamo affrontare con soluzioni opposte a quelle perseguite finora. L’alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie».