Tel Abbas è a nord di Beirut, a quattro chilometri dal confine con la Siria. Qui un anno e mezzo fa i volontari dell’Operazione Colomba hanno montato la loro tenda in mezzo a quella di un gruppo di profughi in fuga dalla Siria. Perché la condivisione per loro non è una questione teorica e l'accoglienza non è un compito che riguarda altri. Partire dalla esigenza dell'incontro, dall'idea che i destini possono e devono incrociarsi, che la pace è un impegno quotidiano e concreto. Che c'é bisogno di compromettersi e che la giustizia passa dalla condivisione.
Mattia Civico, "Trentino", 23 giugno 2015
Li raggiungo nel primo pomeriggio dopo un viaggio un po' rocambolesco, fatto di passaggi successivi, di territorio in territorio, di soste e ripartenze, di taxi collettivi. Mi accoglie Marta, volontaria di Rovereto che vive qui da un paio di mesi insieme a Maria, Corrado e Sonia. Bello sapere che c'é un pezzo di Trentino anche qui, dove si può consolare solo rimanendo. Mi piacerebbe dirle che per me oggi è lei la ragione di essere fiero della nostra comunità, capace di gesti generosi e silenziosi.
Il primo sguardo lo incrocio con Rabia, un giovane papà di ventisette anni. Vive nella tenda accanto alla nostra con la moglie e i due figli piccoli. Hammudi ha meno di un anno ed è nato qui, lontano da casa sua. Casa sua in realtà non c'é neppure più. Rasa al suolo come tutte le altre del suo stesso quartiere. La prima parola in arabo che imparo e "shukran", grazie. Non hanno nulla ma lo condividono con una rara capacità di accoglienza. Ci ritroviamo, dopo il digiuno del Ramadan, nella tenda di Rabia a bere il té e il Mate, una bevanda calda alle erbe, una specie di tisana. Piano piano arrivano anche gli altri familiari di Rabia: i due cognati, la suocera. Si mettono tutti in cerchio, sui materassi che delimitano lo spazio del soggiorno. I bambini giocano con dei palloncini e ne fanno coroncine con cui mi danno il loro benvenuto. Si gioca con le mani e con le smorfie. Ci si capisce. E come ogni sera raccontano e ricordano. Del perché son qui, da dove vengono, cosa è successo a loro e a tanti come loro. Mostrano le loro fotografie pare quasi senza malinconia per il passato, ma con la preoccupazione del futuro. Sanno che non possono guadare indietro, sanno che è difficile guardare avanti.
Sono sospesi, senza spazio e senza tempo, in attesa che qualcosa accada. Ostaggi delle stagioni che passano. Casa loro era un tempo a pochi chilometri da qui, in un quartiere di Homs. Ci si potrebbe andare anche a piedi. Ma non si può. Non si può proprio. Tutto il loro quartiere non esiste più e gli abitanti di quella zona vengono considerati dal regime siriano degli oppositori. Lo stesso Rabia racconta di periodi di carcere duro. In Siria queste persone non faranno dunque più ritorno. Ma immaginare dove possano andare o se avranno mai un futuro è davvero difficile. Il Libano è un fazzoletto di terra in cui abitano quasi quattro milioni di persone. Ora ci sono un milione mezzo di profughi in più. Percentuali del trenta per cento di richiedenti asilo che potrebbero far riflettere qualche mio conterraneo che parla di invasione riferendosi all'Italia. Il tema dei profughi e dei richiedenti asilo, visto da qui, ha una concretezza che lascia senza parole. In effetti desidero esattamente questo: costringermi a comprendere che dietro le statistiche, i numeri, le definizioni, le polemiche, ci sono storie disperate, famiglie in fuga, miseria infinita: ho bisogno di associare alla parola "profugo" dei nomi, dei volti, delle storie. Ora però anche sguardi accoglienti, incontri possibili e densi di mitezza. E gli occhi del piccolo Hammudi che, incapaci di capricci, pretendono futuro.