Francamente stanco di dover rincorrere un dibattito troppo spesso arenato su personalismi che fanno il gioco più della stampa che della politica, ritengo necessario fare alcune precisazioni, in ordine al ragionamento avviatosi circa le prospettive dell’attuale maggioranza politica provinciale.Bruno Dorigatti, 29 maggio 2015
Pur nella comprensione del punto di vista di chi ritiene di dover privilegiare l’aspetto amministrativo su quello di prospettiva, credo anzitutto che non si possa sempre prescindere dai principi e dal pensare la politica come traduzione di una più larga idea di bene comune, anziché di puntuale spuntatura dei vari tasselli programmatici. E la riflessione non è rivolta solo ai partner di coalizione, ma anche al Partito al quale appartengo. Non è sufficiente infatti esercitarsi nella doverosa critica delle omissioni o degli errori commessi. Qui, secondo il mio punto di vista che non è assoluto e granitico, quello che appare carente è un progetto complessivo di domani; un progetto capace di dire ai trentini quale sarà l’approdo del futuro e quali rotte si percorreranno, insieme, per raggiungerlo, nella consapevolezza che l’autonomia non è mai un fatto compiuto in sé, bensì uno strumento in costante divenire, che necessita di aggiornamenti costanti in relazione al mutarsi delle condizioni sociali, economiche e politiche.
Non ho, sinceramente, nessuna vocazione a dare pagelle. So che il lavoro svolto, anche in solitudine, dal Presidente della Provincia non è di poco conto. Conosco la fatica pesante della mediazione, della ricerca costante di quadratura del cerchio, ma ritengo al tempo stesso che ciò non sia del tutto sufficiente per interpretare le domande di adeguamento di una macchina complessa, davanti ai repentini e continui mutamenti in atto. In altre parole, quello su cui oggi la maggioranza provinciale deve interrogarsi non è tanto l’assetto delle variabili del consenso, quanto piuttosto il destino di una terra e di una società confusa, spaesata e preoccupata.
Nessuno ha ricette in tasca e non serve a nulla la corsa alla primogenitura delle supposte soluzioni. Credo, pur nella coscienza dei miei molti limiti e dei miei errori, che lo sforzo al quale siamo chiamati non sia insomma quello dei riposizionamenti di convenienza, ma quello del pensare alto, del ricercare il nuovo, dell’immaginare l’impossibile che diventa possibile. Questa è la politica, nella sua accezione più alta. Ecco perché anche l’utopia non dev’essere estranea al nostro dibattito. Affrontare adesso le sfide del presente con gli strumenti di ieri non è più possibile. Le Liste civiche, delle quali è innegabile l’affermazione recente, questo ci dicono e su questo dobbiamo confrontarci.
Certamente non può essere solo uno sforzo collettivo della coalizione. Anche i Partiti che la compongono, e per primo il Partito Democratico, devono cercare unità di progetto oltre che di intenti, e a poco servono le lamentazioni sul differimento di scelte non più rinviabili. Proprio il mio Partito deve rimettere ordine dentro sé stesso, per rilanciarsi e per individuare leadership riconosciute e non prigioniere delle partigianerie d’occasione, aprendo spazi veri a quei giovani che hanno affermato nei Comuni la loro identità e che hanno molto da dire a tutti noi.
Allora forse non è peregrino il suggerimento di fare non solo analisi e conferenze programmatiche interne ai Partiti, ma allargare lo sguardo alla comunità tutta ed aprire una stagione di confronto dialettico, anche rischioso, con una vera, concreta e convinta azione di ascolto della comunità, azione alla quale non possiamo presentarci con l’arroganza delle risposte preconfezionate, bensì con l’umiltà di chi vuole veramente capire la portata dei problemi e la reale possibilità di risolverli, al di là del momentaneo, dentro una dimensione di lunga prospettiva.
Come facciamo infatti a dialogare con Bolzano, ad esempio, quando Bolzano prova a superarci autonomamente, elaborando proposte di riforma statutaria che non tengono in considerazione il fattore regionale? Come possiamo immaginare la costruzione di un progetto generale, senza coinvolgere, per paura o per supponenza, tutte le sperimentazioni politiche che provano ad innovare il dibattito, tenendo conto anche del quadro nazionale nel quale, volenti o dissenzienti, siamo inseriti? Come crediamo di rispondere ai bisogni emergenti se ci ostiniamo a non ascoltarne la voce? Ecco che allora mettere in previsione una sorta di “operazione ascolto” del territorio, non limitata all’elenco delle doglianze, ma stimolatrice di innovazione e di pensiero condiviso, può rivelarsi uno strumento essenziale per definire gli ineludibili cambi di rotta. E non si tratta, a mio avviso, di una delega “in bianco” al solo Esecutivo, ma anche di una assunzione di responsabilità da parte del Legislativo, costituendo un “tavolo comune” di ascolto e di riflessione.
Le idee non sono sempre partorite dall’urgenza del fare, ma spesso nascono dal costante e paziente confronto fra quelle diversità che, anche dentro la coalizione, non possono essere limiti, ma devono risolversi in vantaggi collettivi; ben consapevoli, nonostante le tentazioni di fuga solitaria di qualcuno in cerca di altri approdi, che nel 2018 il giudizio della nostra gente non farà, giustamente, sconti a nessuno.
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