In questi giorni nel PD, e nell’opinione pubblica, si sta svolgendo un dibattito, molto polemico, sull’identità del PD: sul suo essere o meno un partito di sinistra. Ne parliamo con Michele Nicoletti, professore di Filosofia della Politica ed esponente di primo piano della cultura cattolica democratica. Nicoletti è attualmente deputato trentino del PD e Presidente della delegazione italiana all’assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa.Intervista sul blog di RaiNews "Confini", 14 maggio 2015
Onorevole Nicoletti, in questi ultimi giorni, dopo l’approvazione della legge, ha visto l’addio di Pippo Civati, dell’eurodeputata Elly Schlein e presto anche la sua collega Michela Marzano, stando ad una intervista su Repubblica, lascerà il partito. Anche Stefano Fassina sarebbe intenzionato a farlo. Chi lo ha fatto ha affermato la stessa cosa: l’allontanamento dell’attuale gruppo dirigente del Partito, in primis Renzi, dai valori della sinistra o, comunque, del centrosinistra. Per lei è così?
La decisione che alcuni hanno assunto o stanno assumendo di lasciare il PD mi spiace moltissimo. Capisco coloro che non si riconoscono nel PD perché appartengono all’area della sinistra radicale – che pure svolge una funzione essenziale di stimolo e di critica nei confronti di tutta la sinistra e più in generale di tutta la politica – ma quanti invece si sentono dentro la storia di una sinistra o di un centrosinistra di governo sbagliano a lasciare il PD. E’ la tragica debolezza della politica italiana quella di non riuscire a dare stabilità ai suoi soggetti politici e in particolare ai partiti. Si guardi agli altri Paesi: lì esistono partiti che hanno storie di cinquanta, cento, centocinquant’anni e con la loro stabilità, stabilizzano la democrazia stessa. All’estero i partiti vincono o perdono le elezioni, adottano linee più o meno discutibili, scelgono dirigenti più o meno capaci, ma non per questo si disfano ogni due o tre anni. Il PD è stato il frutto di una incredibile e straordinaria gestazione, lo abbiamo intensamente voluto per anni e sarebbe una follia ora lasciarlo o disfarlo perché non risponde a questa o quella aspettativa di una sua componente. La sinistra deve decidere se vuole un piccolo partito-setta o un grande partito popolare in cui, necessariamente, abitano anime diverse, ma la cui direzione spetta a chi vince il congresso. Io non credo affatto che il PD di oggi stia allontanandosi dai valori della sinistra. Solo che li vuole declinare dentro la grande famiglia dei “democratici” che è cosa diversa dalle socialdemocrazie tradizionali. Si possono discutere metodi o tattiche, ma le scelte di fondo di una più forte Europa politica al servizio della crescita, di politiche comuni sull’immigrazione, di europeizzazione delle nostre istituzioni, di tentativo di sostegno all’occupazione giovanile, di sforzo di una politica redistributiva, insomma l’intenzione che continua a muovere il PD è inequivocabilmente progressista.
Il panorama dei critici, di Renzi a sinistra è ampio: dalla Camusso, che ha addirittura proposto di votare scheda bianca alle elezioni del Veneto, passando per Landini fino ad arrivare a Eugenio Scalfari (che nel suo editoriale di domenica scorsa definisce il PD di Renzi come un partito di “centro”). Stanno esagerando secondo lei, oppure le loro critiche un fondamento? Non vede il rischio della deriva verso l’indistinto “partito della nazione”?
Molte voci critiche sono frutto di passioni personali: le rispetto, ma se il tema è la simpatia o l’antipatia del premier non andiamo da nessuna parte. Sul piano politico molte critiche vengono da chi avrebbe voluto una diversa evoluzione della sinistra italiana nel senso tradizionale del socialismo europeo. Ma da più di vent’anni a questa parte – dai democratici di sinistra all’Ulivo di Prodi al PD – la sinistra italiana sta facendo uno sforzo diverso cercando di fondarsi su un’idea di “democrazia” che supera e invera le aspirazioni di socialisti, cattolici democratici, liberaldemocratici. È un tentativo faticoso, anche perché poche energie vengono dedicate all’approfondimento teorico, ma si è rivelato assai più di successo dei modelli socialdemocratici tradizionali che non mi pare, in Europa, godano di buona salute. Oggi il tema è la democrazia, la democrazia, la democrazia. A livello locale, nazionale, europeo, internazionale. La sua capacità di produrre difesa dei diritti fondamentali e giustizia e benessere attraverso un nuovo compromesso con l’economia di mercato. Quanto al “partito della nazione” l’espressione non mi piace, ma la intendo nel senso di Gramsci, Gobetti, Degasperi: un partito che sappia portare a compimento il Risorgimento italiano. Oggi vuol dire non solo l’Unità d’Italia, ma il protagonismo italiano nell’Unità europea. E un nuovo Rinascimento che ridia dignità all’essere italiani nel mondo dopo anni di umiliazioni dei governi di centrodestra. Ma, ben inteso, rimanendo quello che siamo: il partito che occupa saldamente lo spazio del centrosinistra e che è capace di attirare a sé un ampio elettorato.
Cosa dovrebbe fare Renzi, secondo lei, per recuperare questo diffuso malcontento?
Dovrebbe prendere il toro per le corna e affrontare i nodi ideali, istituzionali, sociali e politici. Aprire una grande discussione sull’identità ideale del PD, su democrazia, cristianesimo, socialismo, libertà rilanciando una nuova passione ideale per la democrazia “senza aggettivi” e proponendo a tutti i nostri partner europei questa sfida. Affrontare in campo aperto la sfida di chi dice che siamo alla democratura e spiegare con quali istituzioni vogliamo rafforzare la democrazia a livello di comunità locali, nazionale, europea e internazionale. Si vedrà così che legge elettorale e riforma della costituzione – se lette sull’orizzonte europeo – rafforzano e non indeboliscono il potere dei cittadini. Aprire infine una grande discussione sul modello di società a cui vogliamo arrivare: quali idea di relazioni sociali, industriali, generazionali, interculturali vogliamo rafforzare e tornare così a dialogare con i mondi sociali interessati a politiche di emancipazione e non di conservazione. Il modo migliore per ritrovare l’unità della sinistra è affrontare i grandi temi, cercare le sintesi ideali. Le mediazioni politiche seguiranno.
Per Renzi ci sono, lui lo ha detto con la solita “brutalità”, ci sono due sinistre: una che vuole vincere, e una che vuole perdere (definita come “masochista”). Forse è troppo semplicistico così. Le chiedo: tutti vogliono vincere, ma come ? Cioè si vince proponendo valori, programmi, idee. Per lei è chiaro l’idea di società che ha in mente il Premier? Io vedo solo pragmatismo…..
Intanto diciamo che vincere non è una colpa. La ricerca del successo, della possibilità della realizzazione delle proprie idee, è parte integrante dell’etica politica come ricordava Bonhoeffer. Il problema non è cercare di salvare la faccia, ma portare un po’ più di giustizia nel mondo. E per questo servono anche le maggioranze oltre alle minoranze profetiche. La legge sull’obiezione di coscienza è stata fatta dopo che i primi obiettori – minoranza profetica – sono finiti in galera. Poi però è stato necessario creare una maggioranza parlamentare. Se la sinistra tornasse a pensare dialetticamente, non sarebbe male. Serve un’idea di società è chiaro. Vogliamo riconoscere però con molta onestà intellettuale che viviamo in un’epoca di grande povertà sul piano delle idee? Non mi pare che i filosofi, i teologi, i sociologi riescano a produrre in questa fase idee di società capaci di produrre correnti nella storia. Producono straordinarie analisi, denunciano spaventose ingiustizie, additano alcuni valori irrinunciabili. Ma idee di società nel senso organico dell’’800 e del ‘900 non ne abbiamo a disposizione. Ferve però nelle viscere della storia il lavorio del pensiero prodotto dalla sofferenza del presente e dalla speranza del futuro e sta tornando una stagione di “idee ricostruttive”. L’idea di democrazia – la più bella idea politica – è una di queste. Lavoriamoci attorno a partire dai grandi capisaldi delle rivoluzioni americana e francese, della grande stagione costituente italiana e tedesca nel secondo dopoguerra con il nostro bell’articolo 3. L’idea di società che vogliamo sta dentro queste radici.
Lei è un esponente importante del cattolicesimo democratico italiano. Studioso di filosofia della politica, viene dalla Fuci, ed è stato uno dei padri fondatori della Rosa Bianca. La sua storia parla chiaro. Quanto di questa storia è presente nell’operato di Renzi?
Il mio battesimo politico – esistenziale e ideale – è avvenuto con la morte di John Kennedy. Siamo cresciuti non solo con i grandi maestri del cristianesimo democratico europeo, italiano, tedesco e francese, ma anche con lo sguardo oltre l’Atlantico. Per lo stesso Maritain la meditazione sugli Stati Uniti è stato un passaggio decisivo così come per Rosmini e Tocqueville nell’’800. L’essere kennediani era un modo d’essere cattolici, progressisti e democratici libero dai conflitti ideologici e religiosi europei. A modo suo Renzi mi pare volersi ispirare a questa tradizione che diversamente da quella europea non ha l’angoscia di fronte al moderno. Il compito però è combinare questa tradizione con la grande tradizione politico-istituzionale dei cattolici democratici, con la lezione dei grandi giuristi e dunque con quella delicatezza nei confronti delle istituzioni, con quell’amore per il pluralismo giuridico e sociale, con quel forte senso dello Stato – sopra gli interessi di parte – che è tipico della tradizione europea. E poi con l’ansia lapiriana per la “povera gente”. Ognuno di noi e anche il premier deve essere stimolato sempre a ritornare alle proprie origini. Sapendo poi che ognuno di noi riesce a esprimere solo un pezzetto di questa e di altre grandi correnti ideali e per questo serve una buona orchestra.
Ultima domanda: Lei per ragioni istituzionali, è Presidente della Delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, gira spesso l’Europa. Come è visto il PD dalla “famiglia progressista “ europea?
Dopo il risultato alle Europee, a Strasburgo hanno definito il PD “a shining light in Europe”. Quel risultato aveva salvato non solo il PD, ma anche i progressisti europei e tutti gli europeisti che, come è noto, non godono di buonissima salute. Il PD è guardato con rispetto e con curiosità. Rispetto per la sue dimensioni e le sue iniziative politiche sullo sviluppo contro il rigorismo e sulla necessità di politiche comuni sull’immigrazione. Stiamo segnando dei punti importanti e non dobbiamo mollare la presa. Secondo me dovremmo spiegare meglio la nostra scommessa “democratica” rispetto alle tradizioni socialiste: per tutti i nostri partner potrebbe essere una strada importante. E poi dobbiamo essere un partito ossessivamente europeista: più Europa politica, più difesa comune con un esercito europeo, più università e ricerca in comune, più asilo e assistenza umanitaria solidale, eccetera. Questa è oggi la sfida della sinistra: dare sostanza democratica e sociale all’Europa, nostra vera casa comune. Non certo il ripiegamento sulla dimensione nazionale.
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