Il cittadino come arbitro: in difesa della riforma elettorale
Nelle polemiche che stanno accompagnando la discussione e –speriamo – l’approvazione della nuova legge elettorale – detta Italicum – si stanno moltiplicando le preoccupazioni nei confronti di una riforma che, combinata con la riforma costituzionale che trasforma il Senato, viene vista come un rischio potenziale per la democrazia nel nostro Paese.
Michele Nicoletti, rivista il Margine, aprile 2015
L’idea cardine della riforma va invece in direzione opposta. La sua base fondamentale sta nella volontà di attribuire al voto del cittadino il potere non solo di scegliere il partito e i suoi rappresentanti in Parlamento, ma anche il potere di indirizzo politico al futuro governo, conferendo alla scelta del cittadino – qualora condivisa dalla maggior parte dell’elettorato – la forza parlamentare sufficiente a sostenere un esecutivo solido e stabile. Come è noto il problema cronico del sistema politico italiano è la instabilità dei suoi governi. Non vi è altro Paese nell’Unione Europea che abbia conosciuto nella sua storia democratica un tale frenetico avvicendarsi (63 governi nei 70 anni dal 1945 al 2015). Tale cronica debolezza non incide solo sulla forza del potere esecutivo, ma più profondamente sul potere del cittadino o, nel suo insieme, sul potere del popolo di imprimere alla politica un indirizzo, una “direzione”.
Pensare di dare stabilità al governo affidando ai partiti il compito di comporre delle alleanze in Parlamento è un errore storico: per decenni in Italia abbiamo affidato ai partiti (e partiti assai più stabili e strutturati di quelli attuali) questo compito e il risultato è quello che abbiamo ricordato, ossia una perenne instabilità. Ma la scelta è anche politicamente discutibile: perché sottrarre ai cittadini questo potere in una prospettiva che si vuole “democratica”?
Restituire lo scettro al principe, ossia al popolo sovrano
All’inizio degli anni ’80, in corrispondenza con una forte crisi dei partiti, si ritenne che per rafforzare il potere del cittadino di dare al proprio governo un “indirizzo” politico con il proprio voto vi fossero solo due strade: la strada presidenzialista/semipresidenzialista e la strada di un rafforzamento del premierato entro la forma di una democrazia parlamentare.
Si ritenne allora – e in molti lo ritengono anche adesso – che la prima strada in Italia potesse essere soggetta a qualche rischio: in un Paese fortemente diviso era opportuno che accanto a un governo espressione di una “parte” continuasse ad esservi una figura “terza” come il Presidente della Repubblica, capace di rappresentare l’unità nazionale e di svolgere nel caso di crisi – peraltro, come si è detto, continue – il ruolo di garante della Costituzione.
Dunque il rafforzamento del premierato, come alcuni sostengono, non rappresenta affatto lo scivolamento verso una deriva presidenzialistica, ma il suo contrario: l’alternativa al presidenzialismo dentro il permanere della forma parlamentare. Tertium non datur. Perché oggi, nell’età dell’integrazione europea, voler perpetuare la debolezza del governo – che deve esercitare un fondamentale potere “legislativo” a livello dell’Unione – non significa rafforzare il potere del popolo, come potrebbe pensare la tradizione anarchica, ma significa spogliare il popolo del suo potere di governo. E non solo a livello nazionale, ma ancor di più a livello sovranazionale, dove si prendono le decisioni più rilevanti.
Per questo, trent’anni fa nella Commissione Bozzi, una serie di politici e intellettuali (Pasquino, Barbera, Scoppola, Andreatta, De Mita, Ruffilli e altri) trovarono una significativa convergenza sulla necessità di rafforzare il potere del premier agendo sulla legge elettorale e correggendo il sistema proporzionale in senso maggioritario in modo da consentire al cittadino – e non alle trattative tra i partiti – di determinare l’indirizzo politico conferendo al governo una solida maggioranza parlamentare. Si parlò allora di “restituire lo scettro al Principe” (Pasquino) o di trattare il “cittadino come arbitro” (Ruffilli). L’idea di un premio di maggioranza da attribuire a chi supera il 40% o a chi vince un ballottaggio nasce in quell’orizzonte per contrastare la proposta presidenzialista, in un’epoca in cui la personalizzazione della politica era di là da venire.
L’evoluzione del sistema politico italiano negli anni Novanta, ivi compresa la legge Mattarella, va in questa stessa direzione. E così la tesi 1 dell’Ulivo sul “Governo del Primo Ministro”. Si ritiene cioè fondamentale conferire al cittadino la possibilità di scegliere il proprio governo: da questo momento in poi le competizioni elettorali si svolgono tra parti politiche guidate da leader che incarnano schieramenti alternativi e che chiedono agli elettori il consenso. Berlusconi, Prodi, Rutelli, Veltroni, Bersani – col Mattarellum o con il Porcellum – stanno dentro tutti questo schema che nessuno nel centrosinistra si è mai sognato di mettere in discussione.
Al contrario ci si è sempre preoccupati delle debolezze o delle falle della legge elettorale che, agendo su due Camere diverse, finiva per funzionare male e quindi per produrre maggioranze diverse.
Per questo vi è sempre stata una generale concordia sulla necessità di dare coerenza al sistema elettorale senza tornare indietro di 35 anni quando i partiti si presentavano agli elettori con le mani libere e formavano il governo attraverso complicate trattative dopo il voto. In questa prospettiva togliere al Senato il potere di fiducia e dare coerenza al sistema elettorale era un obiettivo da tutti condiviso all’inizio della legislatura.
Si conferma l’orizzonte di una democrazia parlamentare
Oggi, invece, si fanno più insistenti le critiche di chi vede nel progetto di riforma una deriva presidenzialista o addirittura autoritaria. Ma nel modello proposto non vi è una dipendenza diretta del governo dal voto popolare: rimane in capo al Presidente della Repubblica il potere di conferire l’incarico e al Parlamento il potere di votare o meno la fiducia. Cosa che in caso di crisi consente, come è regolarmente avvenuto, di avere governi che si formano in Parlamento senza passare dal voto, là dove la situazione economica o altre circostanze sconsiglino il ricorso alle urne. Sostenere che con le modifiche della Costituzione e della legge elettorale si passerebbe ad un’altra forma di governo vuol dire non aver letto le carte oppure voler mantenere il nostro Paese in una forma del tutto anomala di democrazia parlamentare che in un sistema sempre più integrato a livello europeo (e noi siamo per una ancora maggiore integrazione europea) condannerebbe non il nostro Governo, ma l’intero nostro Paese a contare poco o nulla, come appunto è avvenuto tante volte in passato.
Con la riforma i poteri del Parlamento rimangono intatti. Qualsiasi sia l’esito delle elezioni, il Parlamento rimane sovrano e può far cadere il Governo tutte le volte che vuole, senza essere costretto a dare vita a un nuovo Governo con un meccanismo di sfiducia costruttiva o senza essere costretto a sciogliere se stesso. Altro che strapotere del Governo sul Parlamento! Quanto poi allo spostamento del potere legislativo dal Parlamento al Governo che sarebbe l’inevitabile conseguenza di questa riforma, si guardino i dati: nella XV legislatura (2006-2008) sotto il governo Prodi solo il 10% dei provvedimenti legislativi sono il frutto di iniziativa parlamentare, mentre nella XVI legislatura (2008-2013) sotto i governi Berlusconi e Monti la percentuale sale al 22%. Si tratta dunque di un fenomeno ben più risalente e di dimensione europea, che peraltro ha come sua spiegazione proprio la forma della democrazia parlamentare nella quale il Governo non è l’alter ego del Parlamento (come invece nel Presidenzialismo americano) ma il braccio esecutivo della sua maggioranza. Si tratta piuttosto di riconoscere e valorizzare l’apporto che il Parlamento dà ai provvedimenti anche varati dal Governo attraverso il lavoro delle Commissioni e dell’Aula, quando non vengono messe in atto manovre ostruzionistiche. E ancora di potenziare il potere di indirizzo: soprattutto quando il Parlamento deve determinare l’operato del Governo in sede europea (indirizzo oggi affidato a generiche mozioni). E poi di potenziare il potere di controllo anche attraverso un adeguato riconoscimento del ruolo dell’opposizione, che oggi, finalmente, trova spazio nella riforma costituzionale.
Rappresentatività e premio di maggioranza
Se il modello è dunque costruito in modo tale da garantire al cittadino di determinare una maggioranza parlamentare, e dunque la governabilità, non si può dire che esso non dia garanzie sul piano della rappresentatività. La soglia per entrare in Parlamento è posta al 3% ed è dunque superabile anche da piccoli partiti che possono svolgere un ruolo fondamentale alla Camera facendosi portatori di istanze specifiche. Sta alle forze politiche decidere se frammentare il quadro politico producendo una pluralità di piccoli o medi partiti o se invece puntare su aggregazioni ampie, capaci di competere per conquistare il governo del Paese.
Sul fronte della maggioranza, poi, il premio che viene attribuito (al primo turno dal 40% al 54%) non è molto diverso da quello che negli anni ’90 si produceva con il Mattarellum con la differenza che il premio di maggioranza viene attribuito al partito che al primo o al secondo turno consegue effettivamente più voti degli altri su tutto il territorio nazionale. Nel caso invece del Mattarellum e di tutti i sistemi basati su collegi, un partito può conseguire la maggioranza dei seggi senza avere la maggioranza dei voti a causa di una particolare distribuzione dei voti sul territorio. Per non parlare poi di effetti ben più distorsivi del maggioritario di collegio: se si votasse con il Mattarellum e il PD raggiungesse lo stesso risultato avuto alle Europee dell’anno scorso (40,9%) con la stessa distribuzione territoriale, otterrebbe dai 430 ai 480 seggi (a seconda o meno dello scorporo) rispetto ai 340 previsti dall’Italicum.
Si dirà che il problema è l’attribuzione del premio a un partito che al primo turno può conseguire un risultato modesto (ad esempio il 20%) e che vincendo al secondo turno, magari con pochi votanti, può vedere aumentata la sua forza in modo abnorme. Ma questa è la logica del maggioritario che prevede la vittoria di chi primo arriva, come succede per sindaci o presidenti di Regione o per i collegi uninominali tipo Mattarellum e che trova un suo correttivo proprio nella fissazione di una soglia minima per l’attribuzione del premio (40%) e nella previsione di un ballottaggio.
L’introduzione della possibilità di attribuire il premio anche a una coalizione, anziché solo a un partito, è certo una proposta sensata, che risponde anche alla storia politica italiana che ha visto ininterrottamente governi di coalizione. È vero però che ai tempi dell’Ulivo – la coalizione di centrosinistra per eccellenza – il sogno di molti era proprio la costruzione di un partito unico del centrosinistra che potesse dare unità e coesione a quella che spesso era la sommatoria di tribù più che una omogenea alleanza di governo. La debolezza di quella stagione sta anche nella debolezza di coalizioni eterogenee che davano un potere di ricatto ai piccoli partiti che godevano del frutto del maggioritario di collegio incassando seggi con trattative notturne tra le segreterie nazionali (altro che primarie) o con desistenze e non onoravano poi l’impegno a stare assieme facendo franare la maggioranza di governo. Anche per questo non mi pare utile prevedere apparentamenti al secondo turno: darebbero vita a comportamenti opportunistici che consentirebbero a piccoli partiti di partecipare al premio di maggioranza, avendo poi in Parlamento la possibilità di ricattare il governo.
Quanto al fatto che una coalizione sarebbe più plurale di un partito unico del centrosinistra, mi sembra un argomento discutibile: del PD oggi si può dire tutto, tranne che non sia un partito plurale, dato che abbraccia fuoriusciti di Scelta Civica come fuoriusciti di SEL. Insomma lo stesso perimetro politico-culturale dell’Ulivo. Più che il problema del premio alla lista o alla coalizione, il tema mi pare quello del trasformismo parlamentare: se non si cambiano i regolamenti parlamentari, dopo le elezioni sarà sempre possibile e magari anche conveniente uscire dal gruppo sotto il cui simbolo si è stati eletti e dare vita a un altro gruppo. Se la maggioranza parlamentare ha 340 deputati e il quorum alla Camera è 316, basta un gruppo di 30 deputati per mettere sotto ricatto permanente il governo.
Il nodo della selezione della classe dirigente
Insomma, ancora una volta, non servono solo buone regole, servono buoni soggetti e dunque il problema è quello dei partiti. Occorre fare ogni sforzo per avere dei partiti democratici, trasparenti, plurali ma coesi, non luoghi di incursione di gruppi, lobbies o peggio. In questo quadro va collocata l’ultima questione,quella delle preferenze. Naturalmente il tema è la libertà di scelta dell’elettore dei propri rappresentanti. Bisogna però riconoscere che tale tema non può che declinarsi attraverso la mediazione di partiti o gruppi organizzati. Nessun cittadino in nessun sistema elettorale può votare chi gli pare. Si vota sempre un nominativo proposto da un partito o da un insieme di cittadini. Dunque i partiti – o loro analoghi – hanno il compito comunque di selezionare una possibile classe dirigente, di selezionare 1, 2, 5 o 30 nomi da sottoporre al vaglio degli elettori. Anche con le preferenze esiste un potere del partito di escludere qualcuno da una lista o di metterlo capolista o di favorirlo mandandolo in televisione o sostenendolo in altro modo. Non ci giriamo attorno. La responsabilità della selezione non si può scaricare sugli elettori: sono i partiti a fare la proposta e spesso a orientare il voto.
E qui sta certamente la debolezza del sistema Italia. Una debolezza complessiva non solo dei partiti. Siamo in una stagione in cui il nostro Paese è in affanno: non riusciamo a trovare un sistema sensato di selezione della classe dirigente: insegnanti, studenti, dirigenti scolastici, primari di medicina, professori universitari, manager pubblici. Insomma, in ogni settore pubblico in cui si tratta di operare delle selezioni continuiamo a cambiare i meccanismi, ricorriamo tutti al Tar, riempiamo le pagine dei giornali di ogni possibile scandalo. Insomma odiamo la classe dirigente. Odiamo il fatto che ve ne sia una. E quindi non ci importa selezionarla. Ci basta distruggerla o renderla impotente. Sarebbe simpatico come meccanismo se non avesse in alcuni settori (scuola, università, pubblica amministrazione e sanità ad esempio) effetti devastanti sulla vita del cittadino. Nel caso della classe politica forse è meno grave, ma dato che siamo in un sistema integrato europeo, la debolezza della nostra classe dirigente in quella sede ha anch’essa effetti negativi.
Dunque a qualsiasi sistema si ricorra, i partiti devono riprendersi la capacità e la responsabilità di proporre una classe dirigente degna di questo nome. Il Pd si è inventato le primarie e certo sono uno strumento formidabile. Non esente però da possibilità di inquinamento e comunque da sé non sufficiente a garantire una scelta che privilegi, almeno in parte, le competenze. In questo senso l’ipotesi di avere un mix di parlamentari scelti dal partito e di parlamentari scelti dagli elettori non sarà la migliore del mondo, ma ha un senso in linea di principio. Se poi nella realtà i partiti la vorranno usare per il meglio o invece come luogo di spartizione tra le tribù di fedeli all’uno o all’altro capo, è un’altra faccenda. Dopo la riforma costituzionale e la riforma elettorale, bisognerà finalmente dare corpo alla riforma dei partiti. E anche su questo piano, speriamo che una più forte integrazione europea ci aiuti.