Sta andando in onda in queste settimane una serie televisiva che ha suscitato un notevole interesse: il cuore del racconto sono i fatti che hanno portato all'inchiesta di Tangentopoli e alla fine della «Prima Repubblica». È in quegli anni che comincia a deteriorarsi la fiducia nei partiti quale forma organizzata della vita politica, travolti dagli scandali. L'Italia non ha ancora fatto i conti con quella fase drammatica della sua storia, ma una cosa possiamo certamente riconoscerla: da allora la stessa parola «partito» ha perso la sua carica positiva, finendo addirittura per essere sostituita da altre varianti.
Bruno Dorigatti, "L'Adige", 14 aprile 2015
Quasi mezzo secolo di storia repubblicana sembrò interrompersi: i partiti, o peggio la «partitocrazia», erano il passato, e il nuovo che avanzava finì per essere interpretato con maestria da un Silvio Berlusconi che poi, per oltre vent'anni e ancora oggi, è stato al centro della vita politica.
Io credo siano due le questioni che hanno trasformato nel profondo il sistema politico, in un intreccio di cause ed effetti: l'affermarsi di una visione leaderistica della politica e il progressivo svuotamento dei partiti come luoghi di elaborazione e azione collettiva. Di crisi dei partiti politici si parla da molto, non certo da oggi. Ma le drammatiche percentuali di astensionismo stanno rendendo improrogabile una riflessione seria sul loro stato di salute. Quando si analizza il funzionamento dei moderni sistemi democratici, si tende a sottovalutare questo problema: proprio perché i partiti non sono più considerati utili e attrattivi, si finisce per non considerare quanto la loro implosione abbia determinato i problemi che oggi rendono così fragile e contestata la democrazia rappresentativa. Un governo che si basa sulla rappresentanza ha bisogno, infatti, di soggetti in grado di svolgere un ruolo di mediatore tra società e istituzioni da un lato, e diversi livelli istituzionali dall'altro. Se questi soggetti rinunciano o non sono in grado di assolvere questa funzione, scatta un pericoloso cortocircuito.
La figura dei «leader» è diventata dunque una risposta a questo vuoto: non più espressione simbolica di un pensiero collettivo, ma interprete unico, quasi monopolista, delle funzioni di rappresentanza. Il «leader» sa cosa è giusto e cosa no, perché è insignito di un potere totale: realizzare quanto chiede «il popolo», che lo ha incaricato senza mediazioni. Il dato di tragica contraddizione è che questo processo di concentrazione di potere avviene nella fase della storia recente dove meno intensa è la legittimazione reale di questo stesso potere.
Quanto sta avvenendo nel più grande soggetto politico italiano, il Partito democratico, è un esempio paradigmatico di questo processo. Quella che potrebbe essere una normale dialettica interna è diventata uno scontro senza esclusione di colpi: non più una battaglia di idee, ma una lotta all'ultimo sangue che ha come obiettivo l'annichilimento dell'avversario. Confronto, dialogo, sintesi, ovvero il patrimonio più pregiato dell'arte della politica, sembrano essere concetti rinnegati: ma morto il dialogo, la tentazione di - come ha scritto Massimo Franco - «mettere in mora gli avversari con ogni mezzo» è forte. Non solo dentro il Pd: è l'intera vita parlamentare che sembra aver preso questa piega, a dimostrazione che, in assenza di spazi di vita democratica reale nella politica e nella società, prevalgono logiche perverse, oscure e corporative, che si riflettono talvolta anche sulle istituzioni.
In questa fase così complessa, nessuno - nemmeno Renzi - può permettersi di credersi onnipotente: cambiare la Costituzione, riscrivere la legge elettorale, ridisegnare i rapporti tra Stato e autonomie territoriali, riformare il mercato del lavoro, non sono materie che possono essere portate avanti a colpi di diktat e intimidazioni, rinunciando all'esercizio della mediazione, accettando di ridisegnare lo stesso equilibrio parlamentare pur di ottenere ciò che si ritiene necessario. In questa palude, insieme all'identità politica del Pd rischia di annegare la qualità del nostro sistema democratico: la fiducia in un leader segue alterne fortune, ma quella nella politica e nelle istituzioni non si recupera con un sorriso e qualche slogan.
Anche nel nostro Trentino assistiamo ad un'involuzione: i luoghi della politica hanno smesso di essere attrattivi, non rappresentano più un valido orizzonte di impegno per i giovani, e le migliori competenze si indirizzano altrove. È un danno enorme per la collettività, perché un patrimonio immenso di passioni e intelligenze rischia di non essere più investito al servizio del bene comune. Riqualificare la politica, dunque, significa dimostrarne l'utilità, renderla di tutti al servizio di tutti: perché né il Trentino né l'intero Paese hanno bisogno di uomini forti, falsi profeti o salvatori della patria, ma di un rinnovato amore collettivo per la politica, intesa come azione per un continuo cambiamento.