L'articolo 18 è un retaggio del passato

Due mesi fa, alla vigilia di Natale un intero gruppo parlamentare vestito a lutto per il requiem all'articolo 18, come fosse il requiem per i diritti dei lavoratori, per la Repubblica fondata sul lavoro, per la civiltà stessa del lavoro. Nessuno, invece, che si si sia mai vestito a lutto per un sistema nel quale chi non dispone di una rete familiare, amicale o professionale che lo aiuti nel mercato del lavoro è destinato alla disoccupazione; 
Pietro Ichino, "Trentino", 2 marzo 2015


nel quale l'assicurazione generale contro la disoccupazione per mezzo secolo ha assicurato una miseria a chi perdeva il posto; nel quale non si è mai controllato che i corsi di formazione professionale fossero veramente utili per trovare un lavoro, perché ha sempre contato di più l'interesse degli addetti ai corsi stessi rispetto all'interesse degli utenti; nel quale – se si escludono Trentino e Alto Adige – l 'inefficienza pressoché totale del servizio di orientamento scolastico e professionale ha causato un divario colossale tra tasso di disoccupazione giovanile, arrivato a sfiorare il 50 per cento, e il tasso di disoccupazione generale: troppo alto anche questo, certo, ma meno di un terzo rispetto al primo. Giù le mani dall'articolo 18! 
Eppure il sistema di protezione del lavoro di cui l'art 18 è la chiave di volta è nato nel 1970, in un mondo oggi quasi del tutto scomparso: quando nelle aziende non c’erano ancora i pc, Internet, la posta elettronica, ma neppure i fax e le fotocopiatrici. Quando era normale entrare in azienda a 16 anni con la prospettiva di rimanerci fino alla pensione producendo sempre gli stessi oggetti e con gli stessi strumenti. Quando era impensabile che grandi imprese come Olivetti, Fiat o Alitalia potessero mai, non dico chiudere, ma neppure fare un licenziamento collettivo. Di quel mondo è rimasto pochissimo. Nel frattempo l’articolo 18 ha diviso profondamente in due la forza-lavoro italiana, fra chi gode della protezione che esso offre e chi no. E i migliori tra i nostri giovani hanno incominciato a migrare verso i Paesi più avanzati: non certo per cercare un articolo 18 che lì non troverebbero mai, ma per valorizzare capacità che nel nostro Paese restano mortificate, per poter aspirare a ruoli e responsabilità che a sud delle Alpi sono loro preclusi. 
Credo che abbiano ragione quelli che lo considerano come il fondamento di un regime di job property, incompatibile con l’economia contemporanea, generatore dell’apartheid tra protetti e non protetti. Me ne sono convinto osservando dal vivo vicende che spiegano meglio di qualsiasi trattazione scientifica perché l’articolo 18 è accusato di abbassare la produttività del lavoro degli italiani; casi clamorosi nei quali esso ha coperto d’oro persone qualificate come “probabilmente colpevoli” nelle sentenze che li reintegravano nel posto di lavoro; casi nei quali le sentenze che lo hanno applicato hanno messo a repentaglio decine di posti di lavoro; tutte vicende di lavoro reale, di lavoratori e imprenditori che hanno bisogno gli uni degli altri, ma che in Italia hanno più difficoltà che altrove a trovarsi nel mercato e a separarsi quando la collaborazione non è più possibile. Poi anche, viceversa, esperienze straniere che mostrano come le cose possano funzionare diversamente. 
Ora la riforma comunemente chiamata Jobs act sta incominciando a muovere i primi passi, con il nuovo sistema di protezione del lavoratore nel mercato invece che dal mercato. Con l’ambizione di coniugare la flessibilità delle strutture produttive con un mercato del lavoro più aperto ai new entrants e più sicuro per tutti. Per sgranchire il nostro Paese, riaprirlo al grande flusso degli investimenti globali cui oggi è ermeticamente chiuso, aumentare il tasso asfittico di occupazione dei giovani, delle donne e degli anziani, che colloca il mercato del lavoro italiano in fondo a tutte le graduatorie europee. Ne sarà capace? È la mia speranza; non una certezza. 
La mia sola certezza è che il vecchio ordinamento non funziona più e costituisce una palla al piede per i lavoratori più deboli, per le imprese e in definitiva per l'Italia intera: perché non offre a chi cerca un lavoro né le informazioni sul lavoro che c'è, anche in questo periodo di crisi nera, né gli strumenti per adattare le proprie capacità alle esigenze delle imprese che cercano manodopera; perché ritarda l'aggiustamento degli organici nelle aziende e l'eliminazione delle strutture produttive inefficienti, così riducendo la produttività media della forza-lavoro; perché frena la ricerca progressiva da parte dei lavoratori della posizione nella quale il loro lavoro è meglio valorizzato; perché nega il principio fondamentale della contendibilità di ciascuna funzione, pubblica o privata che sia. La sicurezza economica e professionale del lavoratore non può più essere garantita attraverso l'ingessatura del suo posto, la non contendibilità della sua funzione. La sola sua difesa efficace si riassume in tre parole: informazione, formazione e assistenza alla mobilità. Sono le tre parole che definiscono il campo di azione del Fondo Sociale Europeo. 
Ma è un campo, questo, nel quale in Italia i servizi latitano; anche per colpa di un movimento sindacale che su questo terreno ha rinunciato a operare ormai da quasi un secolo. Nonostante che proprio sul terreno dei servizi nel mercato della manodopera esso sia nato, alla fine del secolo XIX e agli inizi del XX, con le leghe bracciantili e le camere del lavoro che gestivano gli uffici di collocamento per gli operai, con la Società Umanitaria di Milano e altre istituzioni analoghe sparse in tutta Italia, che assistevano i lavoratori migranti dando loro un tetto e una minestra calda, l'informazione e l'orientamento necessari, e soprattutto la formazione utile per trovare lavoro e all'occorrenza cambiarlo. Altro che articolo 18! Non c'è legge o contratto collettivo, non c'è giudice, avvocato, ispettore o sindacalista, che possano assicurare alla persona che lavora sicurezza economica e professionale, libertà e dignità più e meglio di quanto non gliele assicuri la possibilità di andarsene da un'azienda dove è trattata male, per passare a un'azienda dove è trattata meglio.