Quando le scuole, all’interno di programmi sull’educazione civica, organizzano visite guidate alle istituzioni provinciali, mi piace chiedere agli studenti cosa sia secondo loro l’autonomia. La risposta più frequente è, in sintesi: «Sono autonomo se posso decidere io cosa fare della mia vita, tenendo conto di chi mi sta intorno». In altri casi lo stesso concetto viene declinato con il soggetto noi al posto di io.
Luca Zeni, "Trentino", 26 gennaio 2015
Partiamo dal primo caso, l’io. I ragazzi colgono un aspetto fondamentale: l’autonomia non si identifica con la Provincia di Trento, è qualcosa di molto più profondo! Ha a che fare con l’essenza stessa dell’essere umano, significa possibilità di realizzazione, possibilità di raggiungere una vita piena, come persona al centro di una rete di relazioni. Non è individualismo solitario, ma nemmeno quel comunitarismo che appiattisce le differenze e il valore.
Questa premessa è importante, perché oggi stiamo correndo un rischio esistenziale, come istituzioni dell’autonomia trentina, dovuto alla rinuncia a cercare le ragioni profonde di una visione che vorremmo proporre. Spesso cerchiamo infatti di difendere l’assetto istituzionale e finanziario, richiamandoci alla storia o ad un’efficienza più o meno marcata rispetto ad altre regioni, contrattando di volta in volta qualche competenza in più e qualche milione di euro in meno. Ma la posizione è debole sul lungo periodo.
Credere nell’autonomia non significa soltanto proporre un modello più efficiente (che in molti casi è messo in discussione, numeri alla mano), ma credere in una visione del mondo, dove l’autonomia è innanzitutto quella delle persone, poi quella dei corpi intermedi (le associazioni attraverso le quali le persone organizzano la società) e infine delle istituzioni.
Occorre riconoscere che nel corso degli anni il Trentino ha faticato a seguire questo modello, ed è facile paragonare la Provincia a quella di una mamma troppo presente, incapace di creare le condizioni perché il figlio amato cammini con le sue gambe. In economia questo ha prodotto quella che viene chiamata “malattia olandese”, tipica degli Stati con altissima concentrazione di materie prime, come il petrolio, dove la fonte di ricchezza aumenta il benessere, ma sopisce lo spirito d’impresa, la voglia di mettersi in gioco.
Forse è questo il problema maggiore del Trentino oggi: le risorse che in passato hanno garantito benessere, hanno appesantito la vitalità del tessuto economico. Un paradosso per un territorio di montagna come il nostro, abituato alle difficoltà di un ambiente ostile. Proprio per questo oggi che le condizioni sono cambiate, dobbiamo ritrovare lo spirito di chi non si abbandona al pessimismo, e riparte con slancio anche grazie ad un ente pubblico che cambia il suo ruolo, rinuncia ad essere “stato centrale”, e riconosce e accompagna l’autonomia diffusa delle persone. Ma entriamo ora nello specifico delle istituzioni dell’autonomia, al noi della risposta dei ragazzi. Chi ricomprende quel noi che può decidere del suo destino? Le istituzioni, per possedere una legittimazione reale, devono rappresentare una comunità che si riconosca in esse.
L’eterna discussione sul rapporto tra Province di Trento e Bolzano e Regione sottende un diverso significato di quel noi. Proviamo a schematizzare. La prima posizione, di solito frequente nella provincia di Bolzano, chiede di riconoscere il fallimento dell’ente Regione, che andrebbe eliminata, concludendo il processo che ha portato alla centralità delle due Province. Si evidenzia quindi che trentini e sudtirolesi costituiscono comunità molto diverse, due noi distinti. La seconda posizione, diffusa in Trentino, si richiama invece alla necessità di un ruolo forte dell’ente Regione, e chiede di riconoscere una storia comune, un noi comune. Entrambe le posizioni naturalmente nascondono motivazioni anche strumentali: nel primo caso rafforzare il senso identitario anche in chiave elettorale; nel secondo caso evitare che il Trentino, senza l’ancoraggio al Sudtirolo, si esponga a maggiori attacchi da parte di chi ritiene non giustificata la specialità dell’autonomia.
Ma qual è la verità? Chiunque conosca un minimo le due realtà, non può non riconoscere che le diversità culturali, linguistiche, persino socio economiche, sono a tratti profonde. Ma chiunque possieda un minimo di onestà intellettuale sa che non siamo accomunati soltanto da una storia comune, ma anche da un comune destino.
Ci sono allora due noi distinti, ma che sono in una relazione ontologica. Ed è un comune interesse riconoscere che, in un mondo interconnesso, lavorare insieme può diventare quel valore aggiunto che fa la differenza. In quale direzione procedere allora? Sono convinto che si possa mantenere la centralità dell’azione legislativa e amministrativa nelle Province, che si sono affermate come l’istituzione di riferimento per i cittadini, rafforzando al contempo il ruolo di perno per la Regione. Che potrà diventare una Regione a costo zero, più leggera nella struttura, ma sempre più rilevante per l’attività di programmazione e di coordinamento.
Dove fermare la lancetta, tra un minimo e un massimo, sarà una scelta che dovrà compiere la politica insieme ai cittadini, ma mi piace immaginare che la lungimiranza delle due comunità saprà riconoscere l’importanza di muoversi insieme. Non solo nel fare economia di scala su servizi dove una massa critica maggiore abbatte i costi (la questione della gestione dei rifiuti, con un inceneritore sovradimensionato a Bolzano e rifiuti “esportati” altrove a Trento, è paradossale ma emblematica), ma soprattutto nella programmazione e pianificazione in campo culturale, sanitario, infrastrutturale, universitario, turistico, ed in ogni campo dove linee guida comuni possono essere un enorme valore aggiunto. Solo se sapremo proporre una visione complessiva dell’autonomia, riferita alle persone e alla società, e di conseguenza alle istituzioni, potremo ritrovare slancio interno e persuadere chi, nel resto del Paese, ancora propone ricette centraliste.