La formazione politica è una dimensione essenziale di un partito che voglia definirsi democratico, nello spirito dell’articolo 49 della Costituzione. E del resto è la formazione in sé, è l’acquisizione di sapere, di conoscenza, ad essere quanto di più importante ci sia per la crescita di una società, per la sua armonia e la sua coesione, per la riduzione di quegli squilibri che si fanno più grandi e inaccettabili proprio lì dove il diritto all’istruzione è negato o mortificato.
E’ la realtà del mondo che ce lo ricorda ogni giorno. E’ la storia del nostro stesso Paese che ce lo insegna. Un secolo fa, e più indietro ancora, imparare a “leggere e far di conto” voleva dire aprire gli occhi e alzare la testa, serviva a non doversi più presentare di fronte al padrone con il cappello in mano ma con la consapevolezza della dignità del proprio lavoro. Nel dopoguerra, nel tempo duro della ricostruzione e poi della crescita economica, e poi lungo gli anni Sessanta, quelli di Don Milani e della sua piccola ma grande scuola non lontana da qui, a Barbiana, era l’istruzione, era lo studio, era l’ingresso nel circuito formativo, la carta migliore che milioni di ragazzi avevano per uscire dalla gabbia del censo, per guadagnare da sé, con il proprio impegno e la propria intelligenza, un futuro diverso da quello al quale la loro provenienza di classe li avrebbe inesorabilmente costretti.
E anche oggi che così tanto, se non tutto, è cambiato, voi giovani sapete meglio di ogni altro che resta la conoscenza, resta la formazione, l’unico modo per far vivere concretamente quelle pari opportunità cui tutti hanno diritto, per rimettere in funzione quell’ascensore sociale da troppo tempo bloccato. Per permettere a chi vuole salire di provare a farlo. Per consentire a chi vuole cambiare di poter tentare senza che il ragionevole rischio diventi un azzardo.
Per noi, per il pensiero democratico, la scuola è il centro di tutto. Per la destra, è un costo da tagliare.
Per noi, la formazione è la chiave con cui una società dischiude il suo futuro.
Ed è linfa vitale, non preziosa ma indispensabile, per un partito, come il nostro, che non accetta di pensarsi come un mondo chiuso e autosufficiente, quasi fine a se stesso, proteso alla conquista della società civile e all’occupazione delle istituzioni; per un partito, come il nostro, che vuole invece pensarsi e vivere come uno strumento al servizio dei cittadini, uno strumento utile per loro, uno strumento dai cittadini stessi promosso e organizzato, per rendere possibile la loro partecipazione al governo della cosa pubblica.
Un partito così, un partito aperto e democratico come noi vogliamo essere, ha bisogno di formazione politica come del suo pane quotidiano. Perché ha bisogno di alimentare la sua azione, politica e di governo, con le idee nuove che maturano nella società. E perché ha bisogno di rinnovare continuamente la sua classe dirigente, attingendo a giovani leve che devono poter emergere anche e soprattutto da un percorso di formazione politica.
La formazione politica, come la pensa e la vuole il Partito Democratico, non è indottrinamento. Non si tratta per noi di trasmettere di generazione in generazione un pensiero già fatto e finito. Nel Partito Democratico ci si forma partecipando, in modo sempre più attivo, alla ricerca culturale che impegna il partito e, più in generale, l’area democratica, riformista, progressista, in Italia, in Europa, nel mondo.
Noi ci auguriamo di formare una generazione orgogliosa dell’identità democratica, ma curiosa, sempre in viaggio, guidata dalla libertà intellettuale e non da conformismo e facili certezze.
E vorrei ci si formasse, soprattutto, a partire dall’acquisizione che non dovrà più abbandonarvi per tutta la vita: dal convincimento che la politica, la vera politica, quella “alta”, quella che nasce come arte antica e nobile, ha poco o nulla a che fare con il tatticismo esasperato, con la furbizia come valore, con le manovre nascoste del correntismo, con il gioco della composizione e scomposizione delle alleanze fini a se stesse, prive di visione e di comune sensibilità sui programmi, sulle cose concrete.
Certo, ci si può “formare” anche a questo esercizio della politica. Ma la politica è altro. La politica è passione, è disinteresse, è amore per il proprio Paese, è capacità di portare il proprio sguardo più in là e di farlo pensandosi sempre come parte di una comunità più grande che sente di volersi battere per un progetto di cambiamento, in nome di principi condivisi, di un disegno da realizzare insieme, di una buona amministrazione, di un governo efficiente e in grado di individuare una grande missione collettiva alla quale rispondere.
E ai ragazzi che sono qui e ai tanti che in tutta Italia hanno ritrovato fiducia nelle ragioni del riformismo, io voglio dire che sono loro il Partito Democratico, che è alla loro freschezza, alla loro passione morale e civile che il PD deve saper guardare per essere ciò che ha promesso di essere.
La politica è sapersi pensare sempre in relazione agli altri. E’, deve essere, consapevolezza che se il tempo del “noi” collettivo che schiacciava le aspirazioni e i sogni di ogni “io” è per fortuna finito, quello dell’ “io” separato dal “noi” non le appartiene.
Certamente non appartiene alla politica dei democratici. E altrettanto certamente rappresenta un virus che può far solo male ad una comunità, a società come le nostre, attraversate già di per sé da fenomeni e tendenze che sembrano fatte apposta per disgregare, spezzettare, disperdere tutto in mille rivoli.
Non passa giorno senza che i più attenti osservatori, i più autorevoli intellettuali, non gettino un grido d’allarme sul nostro Paese, ridotto a una sorta di “specchio rotto” e ormai incapace di vedersi nella sua interezza; un Paese smarrito, inquieto, pieno al tempo stesso di energie e di incertezze, queste ultime così profonde che il prezzo che rischiamo di pagare è “la perdita della nostra anima, il dissolvimento del tessuto storico delle nostre coscienze”; un’Italia fragile, dove ad avanzare minaccioso è il pericolo di una vera e propria “decomposizione rss e sociale”, dove domina “l’epoca delle passioni tristi”.
Avrete già letto, già riflettuto su queste parole, su queste analisi tanto profonde quanto preoccupate. Ma io credo, al di là di questo, che chiunque si ponga oggi in ascolto con mente aperta e libera percepisca, nelle nostre società, uno smarrimento diffuso. Individuale, ma anche collettivo. Una vera e propria “perdita di senso”, sotto una fitta coltre di egoismo e di cinismo.
Un deserto di valori, che conduce all’indifferenza verso ogni regola morale, che fa della vita e dei sentimenti degli altri una variabile che non conta, perché l’unica cosa importante è procedere a tutta velocità, e nel modo più facile possibile, nella ricerca del proprio ed esclusivo benessere. E in questa ricerca, che è poi ricerca del “successo”, perché è l’approvazione esterna che conta mille volte di più della soddisfazione personale, è importante non “essere”, ma “apparire”. Non il cammino, ma il traguardo da tagliare per primi, se necessario anche deviando dal percorso, prendendo una scorciatoia moralmente non consentita. Questo è il messaggio che arriva, purtroppo soprattutto ai giovani, dalla cultura oggi predominante.
Oggi sui giornali c’è una notizia che non possiamo non considerare agghiacciante. Perfino bambini di dodici anni fanno uso di cocaina. Come si affronta un dramma simile? Per la destra la soluzione sarà sicuramente sul piano della repressione. Ma vorrei ricordare a questo proposito, che se si vuole stroncare la droga si deve stroncare la mafia e la camorra. E per stroncare la mafia e la camorra al governo ci vuole gente che non pensi che i mafiosi sono degli eroi.
Ancora una volta la risposta della destra è miserevole. Se un bambino di dodici anni cerca la cocaina è perché ha il vuoto attorno a sé, perché la società lo costringe, già a quella età, a considerarsi tanto infelice e smarrito da considerare il rifugio nella trappola della droga come migliore dei giochi e delle passioni della sua età.
La destra è responsabile di questo clima di una società senza valori, di una società egoista e spietata, in cui tutti coltivano solo il proprio desiderio individuale e si considera la missione e l’impegno collettivo e solidale una favola inutile per buoni sentimenti.
L’Italia deve rinascere moralmente, deve darsi un nuovo sistema di valori, deve sconfiggere l’egoismo e il cinismo, che la stanno corrodendo in profondità.
L’“io” separato dal noi diventa sempre più forte. E la separazione sta diventando, come non vederlo, sempre più contrapposizione. E’ l’“io” contro “gli altri”. E’ l’egoismo sociale che diventa chiusura sempre più stretta, e poi ostilità, e pazienza se poi si finisce per cadere nell’intolleranza e nella discriminazione, nel razzismo e nella xenofobia, visto che “gli altri” per antonomasia sono gli estranei, chi non si conosce, chi è figlio di una terra lontana e di una cultura diversa, chi prega in un modo differente, chi ha un colore della pelle che non è uguale al tuo, chi ha un orientamento sessuale che nel piccolo guscio in cui vivi ti hanno detto non essere “normale”.
E allora bisogna proteggersi, solo questo conta. Gli immigrati? Bisogna tirar su muri e costruire fortezze, quando non intervenire a cannonate per non farli nemmeno arrivare a toccare terra. Per il Paese sono una risorsa, per la cultura della chiusura e dell’egoismo sociale sono solo dei nemici. Non si deve perder tempo con l’accoglienza, con l’integrazione: serve solo protezione, e se migliaia e migliaia di vite umane vengono spezzate, se le esistenze di esseri umani e di intere famiglie vengono mortificate, non è cosa che possa riguardare più di tanto.
Protezione, a tutti i costi, in ogni modo, con ogni mezzo. E così, tra annunci roboanti e misure ferree, in verità solo in apparenza, a male si aggiunge male, e alla frantumazione si aggiunge, rischia davvero di aggiungersi, una vera e propria “securizzazione” della società.
In una logica vanamente e unicamente repressiva che finisce per essere solo oppressiva, si parte dalle impronte ai bambini rom per arrivare alle celle negli stadi e al carcere per le prostitute e per i loro clienti, per poi spingersi magari alla proposta della schedatura informatica di massa del sistema francese Edvige: migliaia e migliaia di persone, dai tredici anni in su, “catalogate” in base alla loro etnia, alla loro attività lavorativa, sindacale e politica, al loro impegno sociale.
Protezione, o presunta tale, al di sopra di tutto: della libertà e dei fondamentali diritti civili di ogni persona. E’ anche così che può cominciare l’autunno della democrazia e della libertà.
Non è un caso che proprio a destra, dove si soffia sul fuoco del malessere e delle paure degli individui, non si creda al ruolo che la politica può e deve avere su quanto attraversa in profondità il mare dei processi sociali.
E’ invece solo dalla politica che possono nascere le risposte. Quelle immediate, che garantiscano a ogni cittadino quel diritto alla sicurezza, e vorrei dire alla serenità, che è un suo bene fondamentale e inalienabile. E insieme quelle capaci di intervenire nel tempo più lungo e nel modo forse più difficile, ma certo indispensabile, lavorando per cambiare la mentalità, la cultura dominante, la condizione di un Paese, di una società.
E’ la politica che deve contribuire ad affermare il principio opposto all’egoismo sociale, opposto all’odio che porta all’imbarbarimento dei rapporti umani: il principio che “ogni uomo è mio fratello” e che ciò che lui vive, ciò che soffre o che sogna, coinvolge anche me, “mi riguarda”.
Questo, se volete, è il senso di quelle due parole di allora, il significato di “I care”. Questa è la politica. E questo è comunque il modo di essere, di sentire e di vivere la politica, di essere parte unica e irripetibile di una comunità solidale, di un democratico.
Se sono un democratico, mi riguarda la vita di un operaio che lavora tutto il giorno davanti alla pressa, e che alla fatica deve aggiungere la preoccupazione di un salario troppo basso per poter garantire ai propri figli tutto ciò che un padre vorrebbe.
Se sono un democratico, mi riguarda l’incertezza di una giovane mamma che vorrebbe poter dedicare il tempo più bello alla cura del suo bambino piccolo e poi poter ricominciare serenamente a lavorare, e che invece sa che questo diritto non è detto le sia garantito.
Se sono un democratico, è anche mia l’angoscia di un giovane precario che ha studiato per anni e non ha un lavoro che dia sicurezza al suo futuro. E vive nell’ansia e non nella speranza.
Se sono un democratico, mi riguarda il desiderio di un artigiano, di un imprenditore, di riuscire a concretizzare il suo progetto, di vedere la sua attività, la sua azienda, crescere e competere senza doversi scontrare ogni giorno con la burocrazia o con una concorrenza sleale e per questo imbattibile.
Se sono un democratico, mi riguarda la speranza di un pensionato di ricevere, dopo tanti anni di onesto lavoro, una pensione dignitosa, e di sentirsi vivo, attivo, utile, nel momento in cui la vita regala saggezza e tempo per dedicarsi agli altri o anche per svolgere una piccola e regolare attività lavorativa.
Se sono un democratico, mi riguarda l’amore speciale che abita in una famiglia che ha un bambino disabile, autistico o down, e mi riguarda l’ansia con cui questi genitori guardano al suo futuro se al loro fianco non c’è la solidarietà e il concreto sostegno della comunità e delle istituzioni.
Questi uomini, queste donne, sono miei fratelli, sono mie sorelle. Ed è così perché non penso solo a me stesso, perché non mi concepisco se non insieme agli altri, perché tengo molto a quello che sono e che voglio fare, all’“io”, ma conosco la bellezza delle relazioni umane, dello stare in una società, e riconosco l’importanza del “noi”.
Ecco, io sono sicuro, anche perché avete preso contatto diretto con le punte più avanzate della ricerca politica democratica, che avete respirato l’aria di una politica “alta”, in questi giorni di scuola estiva. E lo straordinario successo di questa iniziativa, la vostra presenza, la partecipazione appassionata e attenta di centinaia di giovani come voi, è una di quelle belle notizie che magari il sistema dei media, per come oggi è fatto, non sempre sa cogliere nel suo valore, ma che invece sono una luce nell’opacità che ci avvolge.
C’è chi domanda cose migliori rispetto a quelle che comunemente vengono messe in offerta. Ci sono persone molto migliori rispetto alle rappresentazioni che solitamente vengono fatte. C’è un’Italia migliore e possibile, che deve ritrovare il coraggio di sé.
Sta a voi ora, individualmente e collettivamente, rielaborare in modo attivo le analisi e le suggestioni con le quali vi siete confrontati in questi giorni. E riversarle, metterle a frutto, nel vostro impegno quotidiano: civile, politico, amministrativo.
Così fa cultura un grande partito democratico, che voglia abitare da protagonista il nostro tempo e non cullarsi nella nostalgia per stagioni passate: che hanno avuto la loro grandezza, talvolta una tragica grandezza, dalla quale è sempre necessario imparare, facendo esercizio di memoria storica, una delle dimensioni essenziali della formazione politica. Ma che non appartengono più al tempo che è nostro.
Il modo di fare cultura del Partito Democratico è quello di coltivare il patrimonio di valori che danno senso alla sua azione e alla sua stessa esistenza: non nascondendoli, sotterrandoli per la paura che vadano perduti, ma mettendoli in gioco, a confronto con le sfide sempre nuove che la storia ci propone e che vanno lette e interpretate.
E rispetto alle quali, è necessario costruire risposte che siano il frutto non della pigra riproposizione di vecchie soluzioni a problemi nuovi, ma del coraggio e del rischio dell’innovazione.
C’è uno scarto tra la costellazione di valori che orienta il nostro cammino e le concrete risposte storiche e politiche che la nostra intelligenza e la nostra passione sono in grado di mettere in campo. Uno scarto che non può mai essere superato una volta per tutte, perché è lo spazio del nostro limite e anche della nostra libertà.
E’ lo spazio di una visione umanistica della politica e della storia, quale è quella che noi professiamo, quella che ispira la cultura politica democratica e riformista. Una visione che riconosce il limite della politica e su di esso fonda il valore della libertà, intesa come primato dell’individuo, con i suoi inviolabili diritti, con le sue incomprimibili aspirazioni, sulla società di cui pure fa parte e verso la quale deve adempiere a inderogabili doveri.
E come primato della società sullo Stato, che altro non è e non deve essere che strumento al servizio della società e degli individui, finalizzato a rimuovere gli ostacoli economici, sociali, culturali che rendono diseguale, troppo diseguale, la libertà di ciascuno.
Una visione che assegna al valore della fraternità, della fratellanza universale, per il quale appunto “ogni uomo è mio fratello”, la funzione essenziale di riserva critica, di non-appagamento, rispetto alle sintesi, sempre parziali e imperfette, tra libertà e uguaglianza.
C’è stato un tempo, nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle, nel quale la politica ha nutrito la tragica illusione di poterlo superare, lo scarto tra etica e politica, una volta per tutte. E’ stato il tempo dell’ideologia, nel quale il pensiero si è risolto nella prassi politica e la politica ha pensato di potersi impadronire del pensiero: e attraverso di esso di dominare la storia, fino a superarla dando vita ad una umanità perfetta.
Cercando di sopprimere il limite della politica, l’ideologia ha finito per soffocare la libertà. L’utopia ideologica si è rovesciata in tragedia: la tragedia dei totalitarismi, che hanno inzuppato la terra di sangue innocente.
Per ben due volte, nel Novecento, la libertà ha dovuto e saputo sconfiggere il mostro totalitario: a Berlino, nel 1945, il nazifascismo fu vinto dopo la guerra più sanguinosa della storia.
E nello stesso anno, non è mai inutile ricordarlo in un Paese che nel suo smarrimento culturale e morale sembra rischiare di perdere oggi anche la memoria, gli italiani riconquistavano, grazie agli Alleati e ai ragazzi che ebbero il coraggio e la moralità di scegliere la Resistenza, quella libertà che non avevano perso all’inizio della guerra, ma ventitré anni prima, quando il fascismo salì al potere.
Uno di questi ragazzi, un giovane ufficiale dell’esercito italiano, aveva proprio ventitré anni, mentre scriveva al padre e alla madre negli ultimi momenti della sua vita, dopo la condanna a morte comminatagli da un tribunale misto tedesco e fascista: “Carissimi genitori – si legge nella sua lettera – non so se mi sarà possibile potervi rivedere, per questo vi scrivo. Sono stato condannato a morte per non essermi associato a coloro che vogliono distruggere completamente l’Italia. Vi giuro di non aver commesso nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata patria. Voi potete dire questo sempre a voce alta, dinanzi a tutti. Se muoio, muoio innocente. Ricordatevi sempre di me”.
Cosa intende dire, dove vuole andare a parare chi si permette di porre sullo stesso piano questo ragazzo e i suoi carnefici, i veri difensori dell’Italia e coloro che scegliendo Salò e la Germania nazista avrebbero finito per “distruggerla completamente”?
Quale presunta e falsa verità storica pensa di affermare, chi sostiene che a scontrarsi in quel durissimo anno e mezzo che andò dall’8 settembre 1943 al 25 aprile del ’45 furono due ragioni opposte ma entrambi meritevoli di rispetto?
E quali principi segue e sente suoi, chi pensa di poter ridurre la condanna della dittatura solo al suo ultimo periodo, come se prima della vergogna delle leggi razziali in Italia ci fosse stato un fascismo “buono” e non, come fu, un regime che impediva di associarsi liberamente, di scrivere, di insegnare, di lavorare, e anche di vivere, a coloro che avevano idee diverse da quelle affermate con la violenza e sostenute con la forza di un sistema totalitario?
Non so se si tratti solo di nostalgia o di un istinto che sollecitato finisce per manifestarsi ben al di là delle posizioni dichiarate prima e delle correzioni arrivate poi. Temo sia qualcosa di più profondo e preoccupante.
Proprio per questo, bene ha fatto il presidente Fini a pronunciare parole in equivoche, rivolte in primo luogo all’interno del suo partito di provenienza.
Viene da pensare che ci sia innanzitutto un limite strutturale della riflessione compiuta dalla destra italiana sulla sua storia, sulla sua cultura, sulla sua identità. Viene da pensare che non sia ancora pienamente introiettata, nel complesso di questa classe di governo, una vera e salda cultura repubblicana, quella che affonda le sue radici nella Costituzione nata dalla Resistenza, negli ideali in cui sono chiamati a riconoscersi tutti gli italiani.
E viene da chiedersi, temo, se non sia questo l’esempio forse più grave di cosa si vorrebbe diventasse questo nostro Paese: senza più memoria, senza più la sacralità e l’intangibilità della sua unità rss, senza la chiarezza assoluta dei principi sui cui si è fondata la nostra democrazia quando è nata dalle ceneri della dittatura e su cui ha poggiato per tutto il tempo che ci ha condotto fin qui. Tutto indistinto, tutto concesso, tutto lecito e possibile. In una sorta di deserto storico e culturale.
Ma finché i democratici avranno forza e voce, non sarà così. Non permetteremo che questo accada. Facciamo nostre le parole del Presidente Giorgio Napolitano, che nei giorni scorsi ha esortato a dar vita ad un forte moto di patriottismo costituzionale.
Non può esserci un prima e un dopo, nei giudizi su quel passato. Non può esserci equidistanza tra fascismo e antifascismo, quando si parla della storia e dei valori repubblicani. E non ci possono essere due verità, entrambe relative e soggettive. C’è n’è una sola: quella che la Storia ci ha consegnato. Che è scritta sulla pietra, sulle “tavole della legge” della nostra Costituzione. Che è incisa nella memoria, e che nessuno potrà mai né ribaltare né sbiadire.
Berlino 1945, dunque. E poi, ancora a Berlino, nel 1989, il comunismo che crollava su se stesso, insieme a quel muro che aveva diviso in due l’Europa e il mondo, come esplodendo sotto la pressione irrefrenabile della libertà.
Fu la fine di quel comunismo che aveva impedito, anche con il sangue, ogni forma di opposizione, ogni forma di libertà.
Si concludeva così la parabola del secolo breve. E veniva ristabilito il principio del limite della politica, la consapevolezza che ogni risultato storico è sempre parziale e reversibile e anche quando ha successo apre nuove sfide e pone nuovi problemi. “Si ha progresso umano – scriveva Toynbee – quando una sfida evoca una risposta di successo, che a sua volta provoca una sfida ulteriore e diversa…”
Per due volte, nel Novecento, la libertà ha sconfitto il totalitarismo. Ma nella storia nulla è mai definitivo e irreversibile. E non può dirsi scongiurato per sempre il rischio che nuove forme di totalitarismo si prendano una rivincita sulla libertà. E comunque, anche quella risposta di successo ha provocato una sfida ulteriore e diversa.
Davanti a noi, davanti a chi nutre una visione umanistica della politica e della storia, c’è ora un avversario nuovo: è il “pensiero unico”, la rassegnata e cinica convinzione che i grandi processi storici del nostro tempo obbediscano solo alla legge della necessità e siano del tutto insensibili alle istanze della libertà.
E’ il pensiero neo-conservatore, per il quale tutto ciò che è reale è razionale e all’intelligenza e alla coscienza dell’uomo non resta che prenderne atto.
In questa visione, i grandi processi storici del nostro tempo diventano giganteschi meccanismi che non è possibile in alcun modo regolare e orientare: quasi fenomeni fisici, che sfuggono a qualunque intervento della ragione, dell’etica, della politica, in balia come sono dei meri rapporti di forza.
Sotto attacco non è più il limite della politica, come nel Novecento, in nome di una visione totalitaria della politica stessa. Ad essere messa in dubbio è la politica stessa: e attraverso di essa la possibilità per la ragione e la coscienza degli uomini non di determinare, ma perfino di orientare il corso della storia.
La forza del pensiero neo-conservatore sta nella sua sintonia con il senso comune: tutti noi, in definitiva, ci sentiamo in balia di forze soverchianti, di gran lunga più grandi e più forti di qualunque nostra capacità di comprensione e di azione.
I cambiamenti climatici, dallo scioglimento dei ghiacci alla desertificazione, fino al moltiplicarsi di uragani e tempeste tropicali anche a latitudini ove erano sconosciute, sono la metafora di questa nostra condizione di radicale precarietà, vulnerabilità, incertezza. Una condizione che avvertiamo con crescente inquietudine e angoscia.
Il degrado ambientale, il terribile livello di inquinamento delle grandi metropoli, il surriscaldamento globale causato dal continuo e crescente consumo dei combustibili fossili, l’uso distorto e dissennato delle risorse primarie e delle fonti energetiche: sono i risultati dell’ingegno e della forza dell’uomo che si spingono troppo oltre. E’ la figura affascinante e minacciosa del “Prometeo scatenato” di cui ha parlato Giorgio Ruffolo, che a fianco delle condizioni prodigiose di prosperità da lui stesso create, e anzi portando proprio queste al di là del limite, si è avventurato in un percorso che sta facendo segnare la dissipazione delle ricchezze reali e del patrimonio naturale.
L’età dell’abbondanza ci sta rendendo più poveri.
Solo nell’ultimo mezzo secolo il mondo ha perso un quarto del suo suolo fertile e un terzo delle sue foreste. Entro i prossimi cinque anni, come ha osservato recentemente il premio Nobel Al Gore, c’è il 75% delle possibilità che la calotta artica scompaia completamente durante il periodo estivo.
Fermare la distruzione dell’ambiente, del nostro capitale naturale, è davvero il primo comandamento della sopravvivenza umana. Ridurre drasticamente i consumi di petrolio e di carbone è la condizione per fermare la crisi climatica, ed è una condizione vitale per noi, perché i mutamenti climatici mettono a rischio il benessere, la sicurezza, e forse l’esistenza stessa della nostra specie. Non quella del pianeta, che in ere lontane ha conosciuto, adattandosi, molti altri sconvolgimenti climatici. La nostra esistenza: quella dell’umanità.
Del resto, non è solo il rapporto con la natura, una natura che pensavamo domata dalla tecnica e scopriamo invece resa dalla presenza umana ancor più imprevedibile, a renderci inquieti. E’ quel complesso insieme di fenomeni che definiamo globalizzazione, ad alimentare il nostro senso di angoscia.
Le difficoltà apparentemente insormontabili a dar vita ad un nuovo ordine mondiale, fondato sul diritto interrss, a sua volta basato sui diritti umani universali, diffondono la convinzione che l’esito più probabile dell’attuale disordine multipolare sia un futuro all’insegna di ingovernabili conflitti di civiltà, nei quali l’unica ragione capace di farsi valere sia quella della forza.
Sul versante economico, d’altro canto, i mercati sembrano resistere a qualunque tentativo non solo di regolazione, come dimostrano i reiterati fallimenti dei negoziati in sede Wto, ma perfino di previsione dell’andamento dei prezzi, dei cambi, degli indicatori macroeconomici. Siamo come trascinati da una crescita globale, forte quanto gli squilibri locali che produce, in un quadro generale di rischiosa instabilità.
E ancora: gli spettacolari progressi della scienza e della tecnologia ci stanno facendo toccare con mano il futuro, hanno rivoluzionato il nostro modo di produrre e di consumare, di sapere e di comunicare; hanno portato la mente a penetrare i segreti più nascosti della materia e della vita, e hanno consegnato all’umanità un formidabile potere sul destino della terra e sulla stessa natura umana. Ma questi stessi progressi evidenziano anche un impressionante ed inquietante divario con la fragilità degli strumenti etici e politici di indirizzo e di controllo della loro utilizzazione e finalizzazione.
Nel Novecento, la libertà fu difesa con successo da una politica democratica che poteva contare su istituzioni forti, quelle delle grandi democrazie occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti d’America, e su una solida base sociale, costituita dalla coscienza della propria forza e della propria funzione generale, di cambiamento, di progresso, di riforma, da parte del mondo del lavoro organizzato, soprattutto industriale. Fu la grande stagione del compromesso tra sviluppo capitalistico e democrazia politica, dell’economia sociale di mercato, dell’affermazione e dell’espansione del Welfare State.
I grandi partiti democratici, socialdemocratici, democristiani, liberaldemocratici, variamente alleati o in competizione tra loro nei diversi Paesi, insieme alle grandi organizzazioni sindacali, furono i soggetti trainanti di questa politica nuova, che nel corso del secolo trasformò il volto dell’Europa e dell’Occidente, portando masse immense di diseredati, sfruttati, subalterni, a divenire cittadini liberi, padroni del loro destino; e la democrazia a sbaragliare prima i fascismi e poi il comunismo, imponendosi come unico regime capace di garantire la libertà e lo sviluppo, nella giustizia e nella pace.
Dinanzi alle grandi questioni globali del nostro tempo – i mutamenti climatici, il multipolarismo disordinato, il gigantismo dei mercati, lo strapotere della scienza e della tecnologia – tutte sfide inedite, in gran parte frutto del successo della politica democratica del Novecento, quella stessa politica democratica si scopre oggi debole e inadeguata, priva com’è di istituzioni forti e di soggetti sociali e politici che la sostengano.
La scala del cambiamento è infatti esplosa in ampiezza, dilatandosi fino a divenire globale ed evidenziando così una drammatica asimmetria, in particolare in Europa, con la persistente dimensione, angustamente rss, delle istituzioni e dei soggetti politici. E con la frammentazione dell’universo sociale, che è come esploso, con l’avvento della società dei servizi, in mille segmenti, nessuno dei quali in grado neppure di pensare se stesso come soggetto sociale generale.
E’ in questo divario tra globalizzazione e politica che si è insinuato e si è fatto strada il pensiero neo-conservatore, con la sua radicale sfiducia nella politica democratica, come strumento di promozione e di governo del cambiamento; e la sua straordinaria capacità di far leva sulle inquietudini e le paure, per affermare una visione difensiva della politica, tutta all’insegna della chiusura e della protezione dal cambiamento.
Tre sono i bastioni sui quali il pensiero neo-conservatore fonda la sua visione di chiusura difensiva rispetto alle sfide poste dalla globalizzazione.
Il primo bastione è il territorio, come antidoto allo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Come gli abitanti delle città e dei villaggi, che si prevede saranno colpiti da un uragano, rinforzano gli argini e sbarrano porte e finestre, così la prima reazione al disordine globale è la chiusura locale.
“Padroni in casa nostra”: un grido angosciato che può diventare aggressivo, che può esprimere la causa di un separatismo substatuale, nel caso di paesi con stati deboli, come è il caso dell’Italia; o la riscoperta difensiva del proprio nazionalismo, come nel caso di tanto antieuropeismo, emerso con i referendum sul trattato costituzionale europeo; o il comunitarismo identitario dell’America profonda e neo-conservatrice; fino all’uso del nazionalismo come surrogato dell’ideologia totalitaria, per la medesima funzione di sostegno ad un regime pericolosamente incline all’autoritarismo illiberale, come nel caso della Russia.
Il secondo bastione, fortemente interconnesso col primo, è l’uso politico della religione, perlopiù identificata con i valori tradizionali, sui quali si fonda l’identità di una comunità. Smentendo ogni previsione sull’esito secolarista della modernità, la globalizzazione ha indotto una rinascita del sacro, caratterizzata tuttavia da una forte esposizione al rischio di una marcata connotazione fondamentalista e integralista.
Non solo nel mondo islamico, ove l’ideologia islamista, che l’11 settembre di sette anni fa ha mostrato il suo volto più terribile, si rappresenta come la difesa di una tradizione religiosa e culturale contro l’empietà della società occidentale e l’omologazione indotta dalla globalizzazione.
Anche in Occidente, sia pure in forme difensive e non aggressive, e non è differenza da poco, il pensiero neo-conservatore cerca di utilizzare la religione come fattore di coesione comunitaria e di chiusura identitaria: non di rado prescindendo totalmente dal contenuto di fede della religione stessa.
Il terzo bastione è il populismo. Quando si vive nell’ansia, nell’apprensione, nella paura, si chiede alla politica una cosa sola: capacità di decisione. Attenzione: non la decisione finalizzata alla soluzione dei problemi, con la pazienza, il rigore, il rispetto della complessità che questo richiede. No, la decisione che viene invocata è quella che ci possa difendere dalla minaccia esterna che si avverte come incombente.
Lo ha insegnato Hobbes: quando gli uomini vivono nella paura, invocano un Leviatano che li protegga. Al quale sono pronti a cedere per intero la loro “sovranità”. La globalizzazione produce insicurezza: geopolitica, col terrorismo; economica, con la concorrenza dei paesi emergenti; sociale e culturale, con l’immigrazione. Ce n’è più che a sufficienza per avvertire la nostra condizione come un nuovo, inaspettato “stato di natura”, un nuovo “homo homini lupus”.
Che il sovrano ci protegga dunque. E per proteggerci, decida. Poco importa come decide, con quali regole e procedure. L’unica cosa che conta è che decida. Tutto ciò che rende più lenta, faticosa, difficile la decisione è visto come un inciampo intollerabile. La discussione pubblica è un inciampo, per non parlare di quella politica e istituzionale. Sono un inciampo gli stessi checks and balances, i controlli e i contrappesi sui quali si regge lo stato di diritto, che è nato, non dimentichiamolo mai, dall’esigenza di limitare il potere, di impedirne pericolose concentrazioni.
Il rischio populista nasce da qui. La paura diffusa e il generalizzato bisogno di decisione generano una pericolosa miscela di: semplificazione mediatica dei problemi, con il conseguente fastidio per ogni richiamo alla complessità; irrazionalismo politico tendenzialmente manicheo, con la conseguente demonizzazione degli avversari; investitura plebiscitaria della leadership, con la relativa marginalizzazione di tutte le istituzioni di mediazione o indipendenti, dal Parlamento alla magistratura, e la noncuranza per la patologica concentrazione del potere e per i conflitti d’interesse.
Insomma, il nostro tempo, il tempo della destra populista, può essere il tempo della democrazia che si riduce.
Nel mese di agosto, “Famiglia cristiana” ha rilanciato in Italia una provocazione di “Esprit”, la prestigiosa rivista fondata negli anni Trenta da Emmanuel Mounier, che ha dedicato un numero alla possibile fine della democrazia come la conosciamo in Occidente. Nella sua introduzione alla discussione, dedicata alla memoria di Borislaw Geremek, il direttore della rivista, Olivier Mongin, parla di rischio di “regressione democratica” e avverte in Europa i sintomi di una rinascita del fascismo, “sotto altre forme”.
La domanda che dobbiamo porci è cosa si possa e si debba fare, sul terreno della lotta politica, per contrastare questa pericolosa deriva e per creare le condizioni culturali, sociali, politiche di un rilancio della cultura democratica.
Sarebbe sbagliato sia ignorare il circuito paura-decisione, sia opporre ad esso un populismo uguale e contrario, fondato su forme speculari di semplificazione mediatica, irrazionalismo manicheo e demonizzatore, investitura plebiscitaria di piazza.
La sfida sul terreno politico e culturale è quella di mettere in evidenza il limite radicale della risposta neo-conservatrice alla globalizzazione: alla sua formidabile e finora imbattuta capacità di alimentare e rappresentare le paure indotte dalla globalizzazione, corrisponde una radicale incapacità, teorica prima ancora che pratica, culturale prima ancora che politica, di rimuovere le cause della paura stessa, dando vita ad una nuova stagione umanistica, ad un nuova fase di espansione democratica.
Questo compito spetta a noi. Questa è la sfida che abbiamo davanti. Questa è la missione che può riempire di senso il nostro impegno politico.
Per portarla a termine con successo, dobbiamo porci l’obiettivo, ambizioso ma realistico, di riconquistare ad una visione umanistica della storia, ad un pensiero neo-democratico, i tre bastioni del pensiero neo-conservatore.
Innanzi tutto il territorio. Utilizzato come paradigma di chiusura difensiva, in chiave protezionistica, separatista, nazionalista, è la loro forza. Ma c’è un’altra cultura del territorio, non meno forte e ancor più radicata. E’ la cultura democratica delle autonomie e del federalismo, inteso nel senso letterale di collegamento tra comunità, in una prospettiva di apertura, a cerchi concentrici.
Al nazionalismo separatistico delle piccole patrie, si può opporre con efficacia la nostra cultura dei liberi comuni, del municipalismo a rete, delle cento città, dei gemellaggi internazionali, dei sindaci come radice profonda della statualità democratica.
Una cultura che può e deve innervare la costruzione di nuove forme di presenza, organizzazione, radicamento fisico nel territorio di nuovi, grandi partiti democratici.
Secondo bastione: i valori. L’uso politico della religione, in chiave difensiva e identitaria, all’apparenza semplice e naturale, in effetti può realizzarsi solo a prezzo di una torsione, se non di un radicale snaturamento, del contenuto della religione stessa, almeno della religione cristiana. La croce non può essere trasformata in una spada senza essere tradita.
Viceversa, il rapporto a prima vista problematico tra religione e democrazia, ove correttamente impostato, può rappresentare un formidabile fattore di rilancio umanistico della politica democratica.
Del resto sul piano storico, come ci ha insegnato Pietro Scoppola, se è innegabile che la democrazia, per affermarsi, in molti contesti abbia dovuto scontrarsi con le pretese assolutistiche delle chiese, è ugualmente vero che essa ha potuto mettere radici profonde solo ove è riuscita a valorizzare le sue radici religiose ed evangeliche in particolare.
Nel suo celebre dialogo con l’allora cardinale Ratzinger, un dialogo che dovremmo adottare come libro di testo nelle nostre scuole di politica, Juergen Habermas ricorda come dinanzi all’emergere della democrazia liberale, “la religione ha dovuto rinunciare alla pretesa di monopolio dell’interpretazione e di organizzazione complessiva della vita”.
E tuttavia, continua Habermas, anche la coscienza laica è chiamata ad un rapporto nuovo, che egli definisce “post-secolare”, con la religione. Un rapporto fondato sulla consapevolezza che “nella vita delle comunità religiose, può rimanere intatto quello che altrove è andato perduto: possibilità di espressione sufficientemente differenziate, sensibilità per vite andate a male, per le patologie sociali, per l’insuccesso di progetti di vita individuali e per le deformazioni di contesti di vita sfigurati”.
In una parola, si potrebbe definirla come la cultura, l’etica dell’accoglienza, in nome del valore della fratellanza umana universale. Un valore fondamentale in una visione umanistica della storia e democratica della politica. Un valore che ha bisogno dell’apporto, ancorché non esclusivo, delle comunità religiose, del loro attaccamento al valore della vita umana in tutte le sue manifestazioni, comprese le più deboli e fragili, per essere alimentato e promosso in una società spaventata.
Sul terzo bastione del pensiero neo-conservatore, quello del populismo, della torsione della democrazia in senso plebiscitario e decisionista, la nostra risposta non può essere un salto all’indietro, verso modelli di democrazia mediata non più riproponibili, né meramente speculare, opponendo un populismo di sinistra al populismo neo-conservatore.
La nostra proposta deve essere quella di una nuova cittadinanza democratica, che fondi la cultura della decisione, assolutamente ineludibile, sulla cultura della partecipazione democratica, ugualmente indispensabile.
Serve un impegno in tre direzioni: riforme istituzionali, che conferiscano maggiori capacità di decisione alla democrazia, quindi dentro e non fuori il sistema dei pesi e contrappesi dello stato di diritto; un nuovo circuito mediatico nel rapporto tra società e politica, volto a ridimensionare il peso dei media unidirezionali, come la televisione tradizionale, e a rafforzare quelli interattivi, a cominciare da internet; la costruzione di una rete democratica interrss, che abbia come obiettivo il rafforzamento delle istituzioni sopranazionali: in Europa, con un rilancio del federalismo europeo e una battaglia in campo aperto contro le posizioni euroscettiche, e nel mondo, lavorando ad multilateralismo efficace.
A novembre sapremo se sarà dall’altra sponda dell’Atlantico, dagli Stati Uniti, che verrà, come per due volte è accaduto nel Novecento, la risposta democratica e umanistica alle minacce che incombono sull’umanità. Sapremo se, con Barack Obama, tornerà a vincere l’America che scommette sul multilateralismo, su nuove relazioni internazionali che trasformino l’attuale instabile multipolarismo in un vero nuovo ordine mondiale, capace di garantire la pace, la sicurezza, lo sviluppo equilibrato, l’espansione della democrazia e della libertà. Oppure sapremo se invece il secolo americano è davvero finito e se dovrà aprirsi per il mondo una fase duratura di incertezza e di rischio.
Tutto questo rappresenta il bivio che abbiamo di fronte, la portata il lavoro che ci attende, grande, terribile, affascinante. Affermare, sulla paura, la speranza umanistica del cambiamento. Vincere la sfida dell’innovazione.
E’ anche nell’insufficienza di coraggio e di innovazione da parte nostra che in passato si è alimentato il rischio, anzi sarebbe meglio dire il fatto compiuto, che la domanda di certezze ha finito per guardare a destra. In questo limite e in un altro, che è quello di aver smarrito gran parte di quella capacità che un tempo era delle forze espressione delle nostre culture politiche: la capacità che un partito deve avere di essere “popolare”, di saper stringere un rapporto stretto e costante con il popolo, con la vita delle persone, con i loro bisogni e le loro aspettative.
Radicamento e innovazione, dunque. Perché i problemi, per essere compresi davvero, devono bruciare sulla propria pelle come un’urgenza. E perché oggi più che mai ci accorgiamo di quanto fosse vera la profezia di Albert Einstein per cui “i problemi non possono certo venire risolti dalla mentalità che li ha creati”.
Pensiamo proprio all’emergenza ambientale. E’ solo con un grande cambiamento culturale e politico, quello che sta ai democratici e ai riformisti rappresentare, che si può affrontare la prima delle grandi questioni che oggi pesa sul futuro dell’umanità.
Un cambiamento che nasca da una nuova etica della responsabilità, da un pensiero globale, dalla capacità di assumere decisioni che riflettano sulle conseguenze non solo per chi è nostro contemporaneo o nostro vicino, ma per le generazioni che verranno e per tutti coloro che oggi dividono questo mondo insieme a noi.
Un cambiamento che significhi una vera, radicale rivoluzione energetica.
“Rottamare il petrolio”, spezzare la dipendenza dai combustibili fossili, dai carburanti che producono emissioni di anidride carbonica. Investire sulle fonti rinnovabili, sull’energia eolica, su quella geotermica, su quella solare: ogni quaranta minuti la Terra è investita da tanta energia solare da soddisfare potenzialmente il nostro fabbisogno energetico per un anno intero.
Una radicale rivoluzione energetica. Un nuovo inizio. Un grande traguardo da fissare, una frontiera verso cui procedere senza più esitazioni.
Barack Obama, nel suo discorso alla Convention di Detroit, ha dimostrato di essere in perfetta sintonia con le esigenze del nostro tempo e con la sfida lanciata da Al Gore agli Stati Uniti: l’impegno a produrre il 100 per cento dell’elettricità necessaria al paese attraverso energia rinnovabile. L’impegno a farlo nei prossimi dieci anni, con la stessa capacità di visione che ebbe John Kennedy quando lanciò la sfida di inviare un uomo sulla Luna prima della fine di quel decennio, iniziato con la sua presidenza.
Sembrava fantasia, divenne realtà. Può sembrare fantasia oggi, ma è possibile, è urgente, e deve diventare reale.
Oggi la nostra Luna è la Terra. E’ il nostro pianeta. E’ il futuro della civiltà umana. E’ l’umanità intera che può compiere un nuovo straordinario balzo in avanti.
Pensiamo poi all’altra grande sfida di innovazione rappresentata dalla possibilità di disegnare un nuovo sistema di welfare che riconosca la nuova realtà globale e sia la migliore alternativa alle invocazioni di chiusure protezionistiche, che risponda in modo positivo alla domanda di protezione sociale e di opportunità che sale dai cittadini europei, che garantisca formazione a chi perde il posto e sostenga la transizione da un lavoro all’altro.
Ci sono enormi diseguaglianze tra i paesi e nei paesi, e c’è una “insostenibilità sociale”, oltre che ambientale, che ormai è sotto gli occhi di tutti. E c’è una sorta di pendolo, quello del potere economico, che in questi anni si è spostato dal lavoro al capitale, entrambi arrivati a livelli record, il primo in senso negativo e il secondo in senso positivo.
Compito dei riformisti, compito della politica, è far sì che questo pendolo torni su una posizione più favorevole al lavoro. Liberando dalla precarietà tutte quelle persone, giovani e meno giovani, che vedono infrangere le proprie aspettative in una serie infinita di contratti di pochi mesi. E ancora riconoscendo giuste retribuzioni, salari più alti a chi ha visto sminuire il valore della propria attività e concretamente precipitare il proprio potere d’acquisto.
Queste devono essere, oggi, le ambizioni di un riformismo globale, fatto di concrete proposte sul piano della progettualità politica e istituzionale, della protezione sociale, della modernità e della multiculturalità; e insieme, fatto di capacità di decidere seguendo dei principi, avendo una visione del proprio tempo e del mondo.
Sapendo quel che è giusto e che non va dimenticato. Che ogni uomo è mio fratello, che ogni cosa accade ad un altro mi riguarda, che se questo altro è più debole ed è in difficoltà sta anche a me averne cura. Che il modo più bello per condurre il filo della propria esistenza è quello di vivere in profondità, mettendosi in cammino, cercando insieme. Che “la felicità è reale solo quando è condivisa”.
INTO THE WILD
“La felicità è reale solo quando è condivisa”.
Guardate, è così, ed è solo così, che il cammino degli uomini è andato avanti. Con la passione e con la forza di chi ha saputo pensare non solo a se stesso e al presente, ma agli altri e al futuro. Di chi concepisce così la politica e di questa politica è interprete e artefice.
Volgete indietro lo sguardo, seguite il percorso dell’umanità, anche solo quello degli ultimi cent’anni. Ad ognuna delle tappe più importanti, ovunque nel mondo, corrispondono le idee e l’azione dei democratici, non di altri.
Gli altri, semmai, li troverete sempre dalla parte opposta. Ad ostacolare, non a sostenere. A frenare, non a favorire il cambiamento. A tentare di conservare privilegi e condizioni date, non a cercare la strada dell’equità sociale e dell’allargamento dei diritti.
Dalla parte giusta della storia, fin da quando i “dannati della terra” e i “miserabili” cercavano nella solidarietà la risposta ai loro bisogni e alla loro volontà di emancipazione, ci sono stati i democratici, non la destra.
C’erano i democratici, non la destra, con le prime suffragette, con le donne che conquistavano il diritto di voto e che si preparavano alle tante e vittoriose successive battaglie di emancipazione.
C’eravamo noi, non la destra, quando i braccianti si battevano per la terra e i contadini fondavano le casse rurali per difendersi dal bisogno con la solidarietà. E quando in fabbrica gli operai alle rivendicazioni salariali imparavano ad unire le richieste di più diritti, più libertà, più riconoscimento della dignità del loro lavoro.
C’erano i democratici, non la destra, a battersi per far uscire il mondo dall’oscurità più profonda in cui mai l’umanità sia caduta, per far cessare il rumore delle armi e porre fine ad una guerra che aveva fatto milioni di vittime, per spegnere le fiamme di quell’inferno in terra che aveva inghiottito un intero popolo innocente.
C’erano i democratici, non la destra, a sostenere le ragioni della civiltà e del progresso quando uomini coraggiosi si battevano per chiudere i manicomi e per affermare un altro modo per curare il disagio mentale.
C’erano i democratici, non la destra, a lottare per i diritti dei neri d’America e a scrivere le leggi che iniziarono a realizzare il sogno fatto quarantacinque anni fa dal reverendo Martin Luther King.
C’erano i democratici, non la destra, a sostenere la lotta contro l’apartheid in Sud Africa e a salutare Nelson Mandela finalmente libero e poi alla guida del suo popolo riconciliato.
Ci sono i democratici, non la destra, a dire che oggi non si può lasciare il compito di proteggere i più esposti ai venti della globalizzazione a chi in realtà non si preoccupa minimamente della necessità di una crescita più uguale e di uno sviluppo sostenibile.
Questo siamo noi. Questa è la nostra storia.
Quando altri volevano che le cose rimanessero così come erano, dicendo che così era giusto perché così era sempre stato, i democratici si battevano per cambiare la realtà, per rispondere alle attese della povera gente, perché ad accompagnare la crescita fosse sempre l’equità sociale.
Quando altri esortavano a non curarsi di paesi lontani e delle sofferenze del mondo, i democratici rispondevano alla loro convinzione che tra gli esseri umani c’è una comunità di destino e lottavano per i diritti e la libertà di ogni popolo e di ogni individuo della Terra.
La destra sta rovinando economicamente, politicamente e moralmente l’Italia.
Il dramma di questo Paese è che non ha mai avuto, ad eccezione del primo centrosinistra e del primo Governo Prodi, una maggioranza riformista che lo abbia cambiato.
L’Italia si renderà conto a breve che sette anni di governo della destra l’hanno ridotta nella condizione drammatica in cui si trova oggi. Solo noi possiamo essere l’alternativa nuova di cui il Paese ha bisogno. Dobbiamo saperlo e lavorare perché al tramonto del berlusconismo corrisponda l’alba di una stagione di riforme, di modernizzazione e di moralizzazione della vita pubblica.
Contro la conservazione, il coraggio del cambiamento. Contro la paralisi della paura, la forza della speranza. Contro la chiusura in se stessi, l’apertura agli altri e al mondo.
E’ il solo modo, anche oggi, oggi più di ieri, in cui potremo governare il cammino. Solo così, con questo spirito e con queste idee, potremo allontanare da noi i rischi più grandi che le sfide di questo tempo ci consegnano, e imboccare l’unica strada possibile: quella dell’equilibrio ecologico, della coesione sociale, di una forte e viva democrazia.