Quarantacinque anni fa, un boato spezzava le vite di diciassette persone e ne feriva altre ottantotto. In Piazza Fontana a Milano, i vetri rotti della Banca Nazionale dell’agricoltura colpivano e segnavano un’intera nazione. Oggi sappiamo che era l’inizio della “strategia della tensione”, che veniva inferto un colpo al cuore del Paese, che i mandanti appartenevano al nucleo padovano di “Forza Nuova”.
Mattia Civico, 12 dicembre 2014
Ma nonostante il difficile e lento cammino di ricerca di una verità giuridica, il nostro Paese sembra ancora faticare nel raccontarne la verità storica, e rifiuta – o rifugge – dall’esercizio della memoria. Ma forse la nostra malattia è ancora peggiore: siamo stati capaci di “umanizzare” i carnecifi, riconosciamo dignità di chi ha pagato o sta pagando il proprio conto con la giustizia, di chi in anni difficili e bui ha con la forza malvagia del proprio pensiero armato le mani dei terroristi. Abbiamo tollerato che persone coinvolte nelle inchieste diventassero parlamentari della Repubblica. Siamo però ancora incapaci di “umanizzare” le vittime. Di guardare negli occhi i loro familiari, di conoscere i loro nomi, di accogliere il dolore di chi ha subito quelle perdite. Dobbiamo fare i conti con questo silenzio, perché è un silenzio colpevole.
Non è una questione da poco. Il superamento di ogni conflitto richiede un elaborazione collettiva, che passa attraverso la ricostruzione di una verità storica condivisa. E’ un processo al quale deve partecipare l’intera nazione, come avvenuto per esempio al termine dell’apartheid in Sudafrica, con il tribunale verità e riconciliazione presieduto da Desmond Tutu; è avvenuto e avviene attraverso il processo di giustizia e riconciliazione in Ruanda. Perché verità e memoria sono i presupposti sui quali possiamo costruire il nostro presente e il nostro futuro.
In questo senso ha un grande valore la scelta del Presidente della Repubblica di convocare al Quirinale ogni anno dal 2009 i famigliari delle vittime delle stragi terroriste. Così disse il 9 maggio in quel primo incontro a cui, insieme agli autori trentini del libro “Sedie Vuote”, ebbi la fortuna di assistere: “Ricordare quella strage significa ricordare una lunga e tormentatissima vicenda di indagini e processi da cui non si è riusciti a far scaturire una esauriente verità. (…) Sono passati quarant’anni e ci sono persone adulte, non solo dei giovani o dei giovanissimi, che non hanno vissuto e fanno fatica anche soltanto a rivivere nella memoria o nella storia di quelle vicende. Questo è uno dei compiti che voi avete assunto ed è giusto che lo portiate avanti”.
Forse oggi abbiamo dunque un dovere a cui non possiamo venire meno: quello di ricordare questa giornata con i nomi di chi non c’è più. Per portare insieme almeno un po’ quel carico che chi è sopravvissuto porta con dignità e nel silenzio dei più. Perché è la nostra storia, anche se non c’eravamo. E perché, per dirla con de André, anche se ci crediamo assolti, siamo comunque coinvolti. Giovanni ARNOLDI, anni 42; Giulio CHINA, anni 57; Eugenio CORSINI; Pietro DENDENA, anni 45; Carlo GAIANI, anni 37; Calogero GALATIOTO, anni 37; Carlo GARAVAGLIA, anni 71; Paolo GERLI, anni 45; Luigi MELONI, anni 57; Vittorio MOCCHI; Gerolamo PAPETTI, anni 78; Mario PASI, anni 48; Carlo PEREGO, anni 74; Oreste SANGALLI, anni 49; Angelo SCAGLIA, anni 61; Carlo SILVA, anni 71; Attilio VALÈ, anni 52