Porsi domande è vitale, quando si smette di farlo si cessa di essere umani. Porre domande è una funzione essenziale di un giornale che voglia svolgere il suo ruolo nella società, che è anche aiutare la politica a uscire dal suo principale difetto: l’attenzione all’immediato, l’incapacità di pianificare. Porre la domanda sulla transitorietà o meno dell’autonomia, sul suo futuro, è fondamentale anche per un altro motivo: sveglia dal torpore che caratterizza la nostra società un po’ viziata dal successo dell’autonomia.
Francesco Palermo, "Trentino", 2 dicembre 2014
Siamo per fortuna una società abituata bene, ma questo non può tradursi in abitudinarietà. E così quasi cadiamo dalle nuvole quando scopriamo che le valli trasudano indipendentismo, che il governo romano è forse il più centralista del dopoguerra, che non siamo l’ombelico del mondo e che il clima intorno a noi è ostile.
Il contesto istituzionale, in un’ottica di lungo periodo, ci dice che tutto è transitorio. Gli stati e le loro articolazioni, la configurazione dei territori e la loro gestione, sono fenomeni umani e come tali caduchi.
Guai quindi a considerare tabù alcuni temi, a partire dalla secessione. Basta prendere un atlante storico per vedere come in un film con che rapidità si spostano i confini. Lo stesso utile esercizio può farsi con riferimento al contesto nazionale, ai flussi finanziari, al clima politico, alle “mode” istituzionali, che devono indurre a capire i motivi dello sguardo torvo con cui ci guardano altre regioni.
Ciò premesso, si può dire che l’autonomia è come la democrazia: imperfetta, ma (ancora) non c’è niente di meglio. Per diversi motivi. Uno è di carattere storico: è l’autonomia ad aver consentito a questi territori di passare in pochi decenni da zone di miseria all’elite del benessere europeo e mondiale.
Un altro motivo è la nebulosità delle eventuali alternative. Il centralismo? Ormai non c’è praticamente più nessuno in questa regione che sia contrario all’autonomia e questo dà al territorio una forza straordinaria, anche nei negoziati con lo Stato (e magari l’Europa).
Il distacco dall’Italia? Per fare cosa? Qui le opinioni divergono. Tutti insieme verso l’indipendenza o uno staterello tedesco che al più tollera l’elemento italiano? Un territorio al centro dell’Europa o il paesello di Heidi? Come pensiamo di gestire la quota dell’1% (almeno) del debito pubblico nazionale senza restare schiacciati?
Ma il motivo principale è un altro ancora. L’autonomia ha ancora un gran potenziale da sfruttare, che non si può più misurare solo in termini di soldi e competenze, ma costringe a farlo in chiave di innovazione istituzionale. Alcuni primi importanti passi si stanno facendo (riforma sanitaria, amministrativa, energetica), ma la macchina istituzionale non è ancora cambiata.
Certo, si è conseguito un doloroso ma fondamentale accordo finanziario con Roma.
Certo, si sta iniziando a mettere le mani al riparto delle competenze.
Certo, ci si sta rendendo conto che alcuni aspetti delle regole relative alla convivenza vanno adeguate. Ma non è ancora partito il solo processo che può consentire all’autonomia di sprigionare il suo potenziale inespresso: una riforma strutturale della governance attraverso modalità nuove, partecipate, che avvicinino cittadini e istituzioni, consentano una più ampia accettazione sociale delle regole e facciano delle istituzioni dell’autonomia un’avanguardia anche sperimentale di processi decisionali adatti alla complessità dell’oggi e del domani.
A partire dalla convenzione per la riforma statutaria, la cui partenza e il cui funzionamento rappresenteranno il confine tra il mantenimento dei vecchi metodi e il coraggio di fare dell’autonomia un laboratorio di innovazione.