Rivelando problemi e fragilità che vanno ben oltre il caso del museo roveretano, l’addio di Cristiana Collu al Mart impone alla politica provinciale una riflessione rigorosa. La gestione infelice di questo delicato momento di passaggio della vita del museo racconta in termini evidenti l’assenza di una chiara idea di futuro per il sistema culturale trentino. Si tratta di una latitanza progettuale grave, che riguarda da vicino una delle realtà più prestigiose e caratterizzanti dell’intero panorama culturale provinciale.
Giulia Robol, "L'Adige", 20 novembre 2014
Attualmente il Mart non può contare sul prezioso contributo di un Consiglio Scientifico. È evidente che l’indirizzo politico-culturale di un’istituzione tanto prestigiosa non può stare nelle mani di una sola persona, né tantomeno del solo Cda che pur può vantare quelle alcune competenze specifiche di settore. Molti elementi sembrano suggerire che questa vacanza forzata d’indirizzo sia la conseguenza di un disegno dell’amministrazione provinciale. E di questo è bene che la giunta tenga conto, con riflessioni quanto più articolate, poiché un punto di vista sufficientemente robusto sui temi della cultura ancora non è emerso.
Maggior chiarezza l’hanno del resto chiesta in questi giorni gli stessi lavoratori del Mart con un appello che la dice lunga sulla nebbia che avvolge le sorti del museo. E non si parla solo di avere certezze riguardo alla figura che dirigerà l’ente nei prossimi anni; si tratta anche di conoscere il destino di 17 lavoratori in scadenza (un terzo dell’organico del museo) e i programmi espositivi dei prossimi mesi, sospesi dall’attuale Cda. Come tutti sanno, la programmazione delle mostre ha tempi di realizzazione molto lunghi e bloccare l’intera macchina privandola di ogni progettualità significa minarne la credibilità e il prestigio. In altre parole, se l’obiettivo è quello di continuare a fare del Mart un volano per la crescita culturale ed economica del Trentino, la strada non è quella giusta.
In questi mesi la politica provinciale sembra avvitata intorno alla scelta delle persone a cui affidare il futuro delle proprie istituzioni più prestigiose. L’insistenza sugli individui a capo di queste realtà non fa però che rivelare la sostanziale assenza di un dibattito sul futuro delle istituzioni culturali (lo stesso vale per la ricerca). La scelta delle persone non può che seguire la definizione degli obiettivi futuri del sistema. Nel caso di Cristiana Collu si ritiene evidentemente che l’idea di museo promossa in questo triennio (che per ridefinire l’assetto culturale di una realtà complessa come il Mart non è certo un periodo ampio) non sia stata convincente. Bene, sarebbe stato il caso di affrontare la questione nei modi e nelle sedi adeguate. Fare leva sulla scadenza naturale di un contratto per aprire alla cieca un nuovo corso, sospendendo di fatto il respiro progettuale del museo, è segno di una non delineata strategia politica.
Non convincono, inoltre, l’enfatizzazione dell’elemento “territoriale” e l’insistenza riportata sul piano squisitamente finanziario. Le risorse economiche, si sa, sono in costante calo e anche il comparto cultura non può che risentirne, vale però la pena ricordare i limiti di una prospettiva piattamente aziendalista in un contesto, quello della cultura, segnato da specificità irriducibili alle forme tradizionali dell’economia di mercato. C’è un’enfasi molto forte sul tema del fundraising e del coinvolgimento dei privati, che si ha un valore, è evidente, vista la situazione, ma non può essere il fulcro totale degli investimenti in materia di cultura. Si tratta, come detto, di una prospettiva necessaria, che l’attuale direzione ha tuttavia mostrato di saper cogliere e interpretare con una flessibilità sperimentale non utilizzata in precedenza. Ma quello del finanziamento privato non può essere l’unico polo, appunto. Non si può pensare di far quadrare i conti senza che sia discusso l’elemento centrale della questione: quale anima deve avere il Mart di domani? Cosa può e cosa deve diventare?
Si ha la netta sensazione che il disegno di riorganizzazione del sistema museale trentino, basato sull’accentramento non solo delle strutture organizzative ma anche della governance, sia stato perseguito in questi mesi senza un reale confronto in sede politica e senza il coinvolgimento delle realtà che quella riorganizzazione si troveranno a vivere. Sembra così di assistere in ambito culturale al processo già in atto in quello della ricerca. Negli anni la PAT ha investito con decisione in queste due dimensioni, nel tentativo di sprovincializzare un Trentino che non si voleva più, per usare le note parole di Kessler, “piccolo e solo”. La crisi comporta necessariamente una razionalizzazione degli investimenti, ma penalizzare oltremisura i gioielli di famiglia appare il frutto di una logica tutt’altro che lungimirante.
Se il Trentino si è guadagnato negli anni l’ammirazione e la stima degli osservatori, e se è conosciuto ben oltre i suoi confini, lo è anche grazie agli investimenti in cultura, conoscenza, educazione, ricerca, i cui effetti sono percepibili ben oltre gli indici dei punti percentuale del PIL (riusciamo oggi ad immaginarci un Trentino senza università, grandi musei, istituti di ricerca?). Non si tratta di preservare roccaforti incapaci di produrre ricchezza, si tratta di ridefinirne i confini senza giocare necessariamente al ribasso. Anche il tema di una “funzionalizzazione” del sistema culturale alle logiche turistiche va ragionato e tenuto in considerazione più come politiche di marketing e comunicazione verso l’esterno che come obbligata e necessaria direzione rispetto alle scelte culturali. Il Mart è un vero museo contemporaneo, uno dei pochi così grande, la sfida dovrebbe essere far conoscere l’arte contemporanea e diffonderla in un contesto, quello nazionale, dove ciò che fa cassetta normalmente riguarda altri periodi storici. Ma l’Italia non è solo quella del Rinascimento e la Francia dell’Impressionismo. La mission di questo museo è nata su altri presupposti, in un periodo in cui questo territorio tanto stava offrendo in termini di contribuzione artistica: ecco, io penso che la ricaduta sul territorio sia anche lì. Forse non tutti ricordano, infatti, come tutto questo iniziò: da uno scritto di Depero, formalizzato da una lettera all’allora sindaco Veronesi, al Curatorio deperiano dopo la sua morte, e dall’allargamento del progetto con il fondamentale contributo di Umberto Savoia, che poi divenne ciò che Mario Botta e Giulio Andreolli di fatto progettarono come contenitore e realizzarono in un secondo momento.
Il Trentino non ha bisogno di chiudersi, ma di continuare ad aprirsi. Se si vanta - a ragione - di essere un “laboratorio di pratiche di buon governo”, forse è il caso di rivendicare questa specificità anche in ambito culturale. “Cavalcare l’onda di un improbabile neocentralismo, giustificato da esigenze di risparmio e di moralizzazione, sembra oggi una via più facile, più naturale, e percepita da vasti strati di opinione pubblica come ‘necessaria’ - così il Presidente Rossi, in una sua dichiarazione - bisogna tuttavia essere consapevoli che si tratta di una via di corto respiro e che, come per tutte le soluzioni semplicistiche e scarsamente meditate, rischia di mancare l’obiettivo e di ingenerare altri e più gravi problemi”. Ecco, vanno abbandonate anche nella politica culturale provinciale le vie di corto respiro che si giustificano con esigenze di risparmio; si rischia altrimenti di mancare l’obiettivo e di ingenerare, appunto, altri e più gravi problemi.
Il che non vuol dire soldi a pioggia che non ci sono e non arriveranno, ma raggiungere l’obiettivo con scelte mirate e lungimiranti, capaci di mantenere l’alto profilo culturale che il nostro sistema museale merita e che rende attuali e non inutili gli investimenti del passato, che grande hanno fatto il Trentino anche oltre i nostri confini provinciali.