Chi nel centrosinistra italiano oggi si girasse all’indietro a contemplare la sfilza di occasioni perdute dalla sua parte politica negli ultimi 25 anni, non potrebbe che cospargersi il capo di sale, indossare l’abito del penitente e impetrare la grazia che “questa volta” ce la si faccia. Sì, perché, occorre riconoscerlo: le altre volte si è fallito oppure ce la si è fatta per poco e per troppo poco tempo e la serie dei fallimenti non è sempre stata dovuta ai meriti altrui, ma assai spesso ai demeriti nostri, alle divisioni, alle gelosie, all’inadeguatezza.
Michele Nicoletti, 10 novembre 2014
Dopo la caduta del muro di Berlino, con i partiti di governo al collasso, i progressisti non riuscirono a offrire un’alternativa al Paese. Arrivò Berlusconi e solo quest’arrivo spinse gli stessi partiti e i movimenti a unirsi sotto l’Ulivo e il nome di Prodi. Si vinse, ma “naturalmente” si decise dopo due anni di mettere fine a quel bel governo riformista. Poi di nuovo Berlusconi. E ancora Prodi di nuovo lasciato (o fatto?) cadere. Ancora Berlusconi e poi di fronte al suo fallimento, il sostegno al governo Monti, il sostegno al salvataggio dal baratro con le misure che conosciamo: il sostegno al fiscal compact, il sostegno al pareggio di bilancio in Costituzione, il sostegno alla riforma Fornero e all’introduzione dell’IMU. Poi la mancata vittoria, il mancato governo del cambiamento, la mancata elezione di Prodi, l’implorazione a Napolitano, il sostegno a Letta e il sostegno alla cancellazione dell’IMU eccetera. Tutto questo mentre il Paese rotolava tristemente su una china declinante, incapace di offrire alle nuove generazioni opportunità di lavoro e di vita.
A parte le due parentesi prodiane è difficile pensare che la storia di questi 25 anni sia stata per il centrosinistra una storia di successo. È un falso storico e una follia ideologica mettere tutti e due gli schieramenti sullo stesso piano – come hanno fatto i Cinque Stelle e in parte perfino i centristi nelle sfortunate (per noi e per loro) elezioni del febbraio 2013 – e attribuire ad entrambi le responsabilità del disastro. Le colpe di Berlusconi e dei governi di centrodestra sono immense ed evidenti in tutti i settori, da quello economico a quello civile, e le poche cose buone sono state fatte nelle parentesi di centrosinistra che hanno messo in campo talvolta ministri di eccezione. Ma proprio per questo il non aver saputo costruire un’alternativa stabile efficace e il non averle consentito di lavorare non è cosa di cui andare fieri. Chi in particolare porta delle responsabilità nel naufragio dell’allora spinta riformatrice non ha molti titoli oggi per presentarsi come chi possiede le ricette giuste per guidare il Paese.
Il Governo Renzi e il 40,8%
Il governo guidato da Matteo Renzi non è privo di contraddizioni. Non è uscito da una bella vittoria elettorale che gli abbia conferito una solida ed omogenea maggioranza parlamentare, ma è nato, ancora una volta, come governo di emergenza per rispondere alla crisi di stagnazione – vera o presunta – del governo Letta. Nella sua composizione è stato un governo deciso dai partiti e continua a fondarsi su una coalizione eterogenea di centrosinistra e centrodestra con l’appoggio – al momento – determinante di Forza Italia sul piano delle riforme istituzionali ed elettorali. È formato da una squadra che non sempre ha il controllo della macchina statale. E non per ragioni di età o di estetica, come spesso si dice, ma per un deficit di capacità di guida politica degli apparati, come ahimè testimoniano le criticità che continuamente emergono in ambiti essenziali della vita civile come gli Interni o l’Istruzione (scuola e università).
Occorre però riconoscere che il risultato conseguito alle elezioni europee può difficilmente essere sottovalutato nella storia politica del centrosinistra italiano. Il PD di Matteo Renzi ha raccolto il 40,8% di voti. È pur vero che si trattava di elezioni con un’astensione altissima, ma per trovare analoghe percentuali, a parte il 48,51% raccolto dalla DC nelle elezioni del 1948, bisogna andare agli anni Cinquanta: nel 1953 lo stesso partito raggiunse il 40,10 % e nel 1958 il 42,35 %. Se poi consideriamo lo schieramento progressista del campo politico, nessuna forza, neanche in coalizione, era riuscita mai a superare la soglia del 40%: solo l’Ulivo di Romano Prodi al Senato era riuscito nel 1996 a raggiungere il 39,89. Ciò dovrebbe spingere il centrosinistra – sostenitori e detrattori dell’attuale leadership compresi – a una riflessione approfondita, tanto più se si considera che tale risultato è stato colto nel contesto di un voto europeo che non ha visto premiate le forze riformiste.
Di tale riflessione approfondita sembra non esservi grande traccia. Il centrosinistra appare spaccato in due tra renziani e antirenziani: i primi, prevalentemente, intenti a incassare i dividendi del successo conseguito dal capo (lui prende i voti, noi ci spartiamo i posti); i secondi, prevalentemente, intenti nello sport di sempre: azzoppare il vincitore o insomma condizionarlo, come se al governo ci fosse sempre un tiranno e come se la politica da fare fosse quella di contenerne i danni. Applicare questa strategia al “proprio” governo è pura follia: è come fare le elezioni per decidere chi sta al timone della barca e poi passare il resto del tempo a cacciare le dita negli occhi al timoniere. Sarebbe meglio dare una mano e, alla fine della regata, vedere se il timoniere ci ha portato o no alla vittoria. Naturalmente quest’esempio non si adatta a chi concepisce la politica non come una regata, ma come una corsa sull’orlo dell’abisso. Se temo sempre che il governo – da chiunque guidato – mi porti alla rovina, solo perché non sono io al timone, è evidente che farò ogni sforzo per indebolirne l’azione.
Per realizzare una sana democrazia dell’alternanza – e questo è ancora l’obiettivo fondamentale da raggiungere in Italia – serve una sana cultura politica della democrazia competitiva, che contiene in sé una lealtà di fondo alle istituzioni da parte di tutti gli attori in gioco, una chiara offerta di ipotesi alternative, una lealtà interna agli schieramenti che consenta a chi conquista il consenso dei cittadini di realizzare il proprio programma. Quest’ultimo punto, come è noto, è uno dei punti di maggiore debolezza. I partiti in Italia si sfarinano dopo pochi mesi dalle tornate elettorali, perché si è incapaci di sopportare le sconfitte dicendo “prepariamoci al meglio al prossimo appuntamento” e si preferisce cominciare a brigare per vedere se, dài, in un modo o nell’altro, si riesce a trasformare la sconfitta propria in una sconfitta collettiva. Così, chi perde le elezioni o un congresso inclina a dare vita a un raggruppamento alternativo, favorito da difettosi regolamenti parlamentari e da una generale scarsissima cultura di governo.
Occorre invece che in questo frangente di straordinaria criticità economica, sociale e politica sul piano nazionale e internazionale, il centrosinistra, giunto alla guida del Paese pur con le contraddizioni rilevate, si mantenga unito e persegua con determinazione l’azione di riforma istituzionale (riforma del Senato e della legge elettorale) e di riforma economica e sociale di cui il Paese ha chiaramente bisogno. È del tutto evidente che i contenuti di questa azione e i metodi della stessa devono poter essere discussi e criticati e che su singoli punti si possono articolare posizioni diverse. Ma la traduzione della critica e del dissenso in atti politici non può spingersi al punto di impedire le riforme. Chi dovesse considerare il modo di interpretare il centrosinistra dell’attuale leadership inadeguato rispetto alla storia della sinistra e alle necessità del momento, dovrebbe eventualmente impegnarsi a proporre un progetto alternativo e cercare di costruire attorno ad esso un consenso sulla cui base, in un prossimo congresso, conquistare la leadership.
Insomma sulle legittime perplessità rispetto a singoli contenuti o metodi di governo deve prevalere in ogni caso lo sforzo di portare il Paese a una democrazia compiuta, ossia ad una sana democrazia dell’alternanza con grandi partiti stabili in competizione tra loro. Dunque l’occasione del governo Renzi va usata fino in fondo per riformare il Paese.
Il disegno delle riforme istituzionali
D’altra parte possiamo dire che lo sforzo di riforma intrapreso dal Governo nei suoi contenuti sia in contrasto con la linea del centrosinistra? A me pare che se rimaniamo sul piano delle riforme istituzionali, l’orizzonte complessivo – non i singoli punti – sia coerente col disegno dell’Ulivo. La trasformazione del Senato in Senato delle Autonomie può non convincere su singoli punti (ad esempio la presenza anomala dei sindaci), ma riprende un disegno già emerso in sede di Assemblea Costituente di affiancare alla Camera politica per eccellenza – quella rappresentativa di tutti i cittadini – una seconda Camera rappresentativa dei territori (e dunque non eletta direttamente dai cittadini), con funzioni non politiche ma di interlocuzione tra Stato e Regioni. Si può naturalmente obiettare che un tale disegno prevede un rafforzamento e non un indebolimento dell’assetto regionalistico quanto alle competenze riconosciute alle Regioni e che invece la riforma del titolo V, così come esce dal disegno di legge approvato dal Senato, sembra andare in direzione di un rafforzamento del potere centrale. Ma non ci si può nascondere che proprio il potere – del tutto nuovo – attribuito ai rappresentanti delle Regioni di concorrere paritariamente in materia di leggi costituzionali e di leggi attinenti i rapporti Stato-Regioni, conferisce ai territori non meno ma più poteri sull’assetto fondamentale dello Stato. Né si può ignorare il fatto che il regionalismo in Italia sia stato attuato in modo sgangherato per colpa di amministrazioni locali irresponsabili e di un deficit di controlli centrali: abbiamo così in alcune regioni bilanci in dissesto, amministrazioni elefantiache, gravi episodi di corruzione e malcostume, deficit di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini (come il diritto alla salute). Non parliamo dell’altissimo numero di contenziosi presso la Corte. Insomma un’operazione di riordino è necessaria.
Di questa prospettiva si è discusso invece assai poco, concentrando tutta l’attenzione critica sul cosiddetto indebolimento del sistema delle garanzie a cui la riforma del Senato avrebbe portato. In tutta franchezza, l’argomento non convince. Il sistema delle garanzie attinenti i diritti fondamentali è da molti anni a questa parte saldamente in mano alla Corte Costituzionale e alla Corte Europea dei Diritti Umani: sono questi organismi che in questi anni di bicameralismo perfetto (in cui i diritti fondamentali sono stati tutt’altro che garantiti) hanno provveduto con le loro sentenze a smontare leggi che il Parlamento appariva incapace di modificare. E non solo in materia di diritti umani e civili, ma anche di diritti politici, si pensi alla recente sentenza della Corte sulla legge elettorale. Pare perciò piuttosto fuorviante accusare la riforma del Senato di indebolire l’assetto democratico del Paese a partire dalle possibilità di espressione della volontà popolare: al contrario esaltando il potere politico della Camera, si rafforza il potere di indirizzo politico dei rappresentanti della totalità dei cittadini (si ricordi che l’attuale Senato non rappresenta tutti i cittadini ma solo quelli che hanno superato il 25° anno di età). Appare dubbio perciò che si affidi a dei rappresentanti dei territori, espressioni di poteri amministrativi, un potere paritario a quello della Camera politica in materia di diritto di famiglia o di diritto alla salute, come è accaduto in seguito all’approvazione di un emendamento delle minoranze. A difesa della coerenza del disegno (si badi: del disegno complessivo, non della singola previsione) si è invece, giustamente, ricordato più volte che il progetto di trasformare il Senato in Camera delle Autonomie stava nel programma dell’Ulivo del 1996 dove si leggeva: «La realizzazione di un sistema di ispirazione federale richiede un cambiamento della struttura del Parlamento. Il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza. Il numero dei Senatori (che devono essere e restare esponenti delle istituzioni regionali) dipenderà dalla popolazione delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni più piccole. Le delibere della Camera delle Regioni saranno prese non con la sola maggioranza dei votanti, ma anche con la maggioranza delle Regioni rappresentate. I poteri della Camera delle Regioni saranno diversi da quelli dell’attuale Senato, che oggi semplicemente duplica quelli della Camera dei Deputati. Alla Camera dei Deputati sarà riservato il voto di fiducia al Governo. Il potere legislativo verrà esercitato dalla Camera delle Regioni per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali». Si mantenga dunque la linea di allora e si intervenga solo con modifiche migliorative dell’impianto generale e si metta mano piuttosto, come non si è fatto a partire dall’adozione della legge maggioritaria Mattarella di vent’anni fa, alle modalità di elezione dei giudici della Corte, dei membri del CSM e del Presidente della Repubblica in modo adeguato all’esistenza di un’unica Camera eletta con sistema maggioritario.
La legge elettorale
Sul piano della legge elettorale anche qui bisogna distinguere il disegno complessivo dai singoli punti. Il disegno complessivo sta dentro l’idea – fortemente rappresentata già in Commissione Bozzi (1983) da Ruffilli, Scoppola, Pasquino, Barbera, Andreatta – di rafforzare il potere di indirizzo politico del cittadino nel momento del voto, dando a ciascuno la possibilità di indicare non solo il proprio rappresentante all’interno di un partito, ma anche la propria maggioranza di governo, raccolta attorno a un omogeneo programma politico. Di qui l’idea – già allora formulata – di prevedere, nel caso in cui nessun partito o coalizione raggiungesse una determinata soglia di voti, un secondo turno di ballottaggio che conferisse al vincitore una solida maggioranza parlamentare. Questa è l’idea cardine che non va in alcun modo smantellata. Il resto va certamente aggiustato. Soglia al 40% altrimenti si va al ballottaggio; soglie al 4% per le singole liste (e non certo all’8%); collegi piccoli e preferenze di genere (e non liste bloccate). Ma guai a perdere di vista l’elemento sistemico che la legge porta con sé: la possibilità per il cittadino, pur in un quadro multipolare o multipartitico, di scegliere una maggioranza di governo. L’alternativa è riprecipitare nella repubblica dei partiti, quella in cui le segreterie facevano e disfacevano i governi e le alleanze, al di là e al di sopra della volontà dei cittadini.
Quanto alla possibilità di attribuire il premio al partito anziché alla coalizione, il tema mi pare francamente poco rilevante. Dal dopoguerra ad oggi tutti i governi in Italia sono stati governi di coalizione e, personalmente, mi parrebbe più utile disciplinare le coalizioni che pensare di poterle superare. Se un domani non avessimo più un partito al 40% , ma una pluralità di partiti al 20%, il ballottaggio finirebbe per dare a uno dei due maggiori partiti un premio di maggioranza del 34%. Per carità, lo avrebbe conquistato al ballottaggio, ma qualche problema si pone. Inoltre: chi pensa che i partiti siano più solidi delle coalizioni non conosce la storia politica italiana. I partiti nel nostro Paese si fanno e disfano come le squadre di un torneo di briscola al bar del paese. Dare il premio al partito produrrebbe di certo l’ingresso delle piccole formazioni nei grandi partiti, ma è tutto da dimostrare che ne garantirebbe la fedeltà (tanto più in presenza degli attuali regolamenti parlamentari che non vincolano l’esistenza dei gruppi politici alle liste presentatesi alle elezioni). Insomma il premio alle coalizioni mi sembra più realistico e meno apportatore di fibrillazioni politiche.
Quanto poi al dibattito sulle preferenze – che pure con collegi piccoli mi paiono il male minore – va ricondotto al problema dei problemi: la selezione della classe dirigente da parte dei partiti politici. In tutto il mondo i partiti svolgono un ruolo fondamentale nel proporre ai cittadini dei candidati (nessuno può candidarsi da solo ma ha bisogno di una collettività di firme di proponenti anche là dove vi è il collegio uninominale); nell’orientarne il voto (posso avere tutte le preferenze che voglio ma se il partito manda in televisione solo i capilista, questi – o queste, come avvenuto alle recenti elezioni europee – avranno infinitamente più possibilità di essere votati, come puntualmente avvenuto); nel valorizzare gli eletti dentro le istituzioni (posso prendere migliaia di preferenze, ma è poi il partito dentro le istituzioni che valorizza l’uno piuttosto che l’altro). Dunque teniamo sempre presente che il diritto del cittadino di scegliere il proprio rappresentante si esercita comunque entro il novero di candidati propostigli dal partito e che per questo il nodo delle preferenze va posto in connessione con la riforma del sistema dei partiti. Sono i partiti che devono garantire meccanismi trasparenti di selezione della classe dirigente capaci di premiare competenze e rappresentatività. Un mix di capilista nominati o il resto eletto con le preferenze non mi pare una buona soluzione: alla fine solo il partito più grande avrebbe questo mix, tutti gli altri (con 120 collegi e dunque 120 capilista) finirebbero per portare in Parlamento quasi solo i nominati.
Su questi due elementi di sistema (riforma del Senato e legge elettorale) si facciano dunque puntuali correzioni, ma non si indebolisca la prospettiva generale. Su questo il centrosinistra deve rimanere unito e sarebbe davvero miope se le perplessità sui singoli punti facessero perdere di vista il quadro di insieme. Così finora non è stato né alla Camera né al Senato. Così deve continuare ad essere nella seconda lettura.
Qualcosa di simile si può dire su altri provvedimenti di riordino delle istituzioni, quali la modifica delle Province e gli accorpamenti dei Comuni. Anche in questo caso non sono pochi i singoli punti problematici, ma la via complessiva di una razionalizzazione (non solo riduzione di spesa, ma pulizia istituzionale) appare sensata.
L’Europa e la sfida economica e sociale
Rimane piuttosto aperta, invece, e su questo il Governo dovrebbe essere sfidato e incalzato, la questione dell’impegno italiano per una democratizzazione delle istituzioni europee. È a tutti evidente che il centro decisionale – per volontà nostra – si è spostato dal livello nazionale a quello europeo. Ma proprio per questo la sfida della democrazia è oggi far contare di più la volontà dei cittadini a quel livello. Non solo indicando con il proprio voto il Presidente della Commissione, come è avvenuto nelle scorse elezioni, ma dando più potere ai cittadini sulla struttura di potere dell’Unione, nonché sulle sue leggi fondamentali e sulla sua legislazione ordinaria e riprendendo con molto più coraggio il cammino verso gli Stati Uniti d’Europa. Un esempio fra tutti: perché non riproporre con forza l’esigenza di un sistema comune di difesa europeo che farebbe risparmiare molte risorse, ridimensionando desueti apparati militari nazionali, e dotando l’Unione di un adeguato sistema di difesa di fronte alle minacce terroristiche e di fronte alle emergenze umanitarie del Mediterraneo a cui si continua a rispondere con la buona volontà dei singoli Paesi membri? Sul cammino di una più forte Europa politica e di una sua più incisiva democratizzazione occorre investire più energia e determinazione. E per questo serve una classe politica europea, un grande gioco di squadra e visione d’insieme. La sfida degli antieuropeisti non è mai stata così forte.
Infine la grande questione sociale ed economica. La situazione, ammettiamolo, è schizofrenica. Da un lato l’insostenibilità del modello presente è avvertita da un numero sempre più ampio di persone: organismi internazionali richiamano l’attenzione sulla drammaticità della questione ambientale; intellettuali, università, centri studi concordano in maggioranza sull’inaccettabilità delle disuguaglianze crescenti, a cui le diverse politiche – di destra come di sinistra – paiono incapaci di porre rimedio; a dispetto della retorica sulla libera soggettività e del moltiplicarsi di ordinamenti e istituzioni giuridiche centrate sui diritti umani, cresce il numero di persone ridotte a mere “cose” con un generale depauperamento della qualità umana di tutte le vite (non solo di quella delle vittime). Dall’altro lato, le nostre politiche appaiono degli evidenti balbettii: oscillano tra liberalizzazioni sgangherate e protezionismi corporativi, le cui giustificazioni sono state elaborate nello scenario di quarant’anni fa e sembrano incidere solo su minimi frammenti di un sistema che appare, nonostante tutto, sfuggire all’incidenza del potere politico. Il centrosinistra rischia così di esaurire le proprie energie intellettuali e politiche in una disputa sterile che non colpisce i veri nodi del problema: né i nodi che minacciano la capacità del nostro Paese di stare dentro il sistema del presente (la drammatica perdita di produttività e il crescente ricorso all’indebitamento pubblico), né i nodi che minacciano la capacità del nostro Paese di anticipare scenari futuri (ridottissimi investimenti in ricerca e sviluppo, insufficienti investimenti in energie alternative, insufficiente valorizzazione dello straordinario patrimonio ambientale e storico-artistico, eccetera). La stessa disputa sull’articolo 18 – che pure mette in campo principi fondamentali come la dignità del lavoratore – nei modi in cui viene condotta appare più una disputa ideologica e di scontro simbolico che non una reale disputa tra due alternative politiche economiche organiche capaci di contrastare il dramma di una enorme e insopportabile disoccupazione. Questo dovrebbe spingere tutti a concentrare l’attenzione più che sul singolo punto – su cui la Direzione del PD si è già pronunciata – sullo scenario più ampio, mettendo in atto strumenti di protezione il più possibili universalistici.
In un periodo in cui i margini di manovra sono evidentemente ridottissimi data la condizione di perdurante stagnazione, le politiche del governo si sono articolate in misure concrete (che mettono in pratica ciò che tutti nel centrosinistra auspicavano: pagamento dei debiti alle imprese, mettere un po’ di soldi in tasca agli italiani, alleggerimento del carico fiscale sul lavoro, sostegno all’occupazione giovanile, diminuzione dei costi della politica …), riforme di cornice (pubblica amministrazione, scuola, mercato del lavoro), trattative con l’UE per una maggiore flessibilità e soprattutto maggiori investimenti. Su ognuno di questi punti si potrebbe naturalmente fare diversamente e magari fare anche meglio con una più ampia riflessione e un gioco di squadra più determinato capace di coinvolgere in modo effettivo le energie e le intelligenze migliori. Ma è difficile pensare che vi siano margini di azioni significativamente alternative. E dunque si tratta nell’oggi di contribuire positivamente a migliorare e rafforzare l’azione del governo, lavorando al contempo per una prospettiva di lungo periodo.
È questo, infatti, il compito più alto: indicare al Paese non solo un necessario atteggiamento positivo di fiducia verso il futuro e verso se stessi, ma anche un’idea di società per cui battersi e sperare. In cui coniugare i grandi ideali della libertà e dell’uguaglianza, della legalità e della solidarietà, in una chiave aperta alle differenze e in un orizzonte chiaramente internazionale. Insomma gli eterni ideali dei democratici, attuali come non mai, e oggi ingabbiati in paradigmi arrugginiti, devono poter riprendere vita propria e dare vita a nuove e più avanzate sintesi. Questo a un governo non si può chiedere, ma a chi coltiva la passione per le idee politiche, sì. Nel mondo, in Europa e fuori dall’Europa, qualcosa si muove nel campo delle idee e nel campo delle pratiche. Guardiamo al di fuori del recinto ristretto delle eterne guerricciole locali e mettiamo in campo almeno il desiderio di un nuovo forte orizzonte ideale. La stagione del mugugno è finita. È tornato l’obbligo della creatività.