In questi giorni sono comparsi sulla stampa alcuni articoli sull’uso del linguaggio di genere nei mass media e sulla rilevanza o meno dell’uso dei termini al femminile nella vita professionale. E’ stato rilevato come, in realtà, si tratti di un falso problema; la femminilità sarebbe infatti una questione di cultura e non di lessico, e non si dovrebbero coniare parole nuove solo per coniugare un nome al femminile.
Giulia Robol, "Corriere del Trentino", 6 novembre 2014
Anche chi prende atto del fatto che l’italiano è una lingua che prevede parole al maschile o al femminile e non registra il genere neutro, spesso liquida le espressioni al femminile come brutte, che “suonano male”, dimenticando però che, nella maggior parte dei casi, siamo prontissimi ad accettare neologismi orribili, come “scannerizzare”, ma rifiutiamo “avvocata” o “ministra”.
E’ poi strano che la maggior parte delle parole che suonano male sono quelle che si riferiscono a professioni prestigiose, sempre declinate al maschile, che diventano ‘sgradevoli’ quando sono declinate al femminile.
Abbiamo infatti subito imparato a dire ‘cameriera’, ‘donna delle pulizie’ e ‘operaia’, ma facciamo ancora fatica a scrivere LA dirigente, LA presidente, LA giudice, l’ingegnera, l’assessora. Persino Word sottolinea in rosso la parola Assessora come se fosse un errore.
Passano gli anni, anzi i decenni, e queste espressioni restano sempre sgraziati neologismi.
Eppure, quasi trent’anni fa, nel 1987, Alma Sabatini, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, formulava le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, e recentemente, nel 2012, Cecilia Robustelli, in collaborazione con l’Accademia della Crusca, ha presentato le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo mentre, in questi giorni, Stefania Cavagnoli, dell’Università di Roma Tor Vergata, si sta occupando di linguaggio giuridico e lingua di genere.
Forse dobbiamo iniziare a pensare che dietro queste ricerche si nasconda qualcosa che va oltre il bello ed il brutto, il suono piacevole o fastidioso, quanto piuttosto qualcosa di reale e profondo.
Il linguaggio costituisce da sempre, ma in un mondo globale ancora di più, lo strumento per dare sostanza alle cose ed alle persone. Che ci piaccia o meno, consideriamo e valutiamo le persone attraverso le parole che usiamo per descriverle; addirittura potremmo dire che le cose ‘esistono’ in quanto definite e nominate.
Ed allora quando neghiamo con il linguaggio il genere femminile nelle professioni, in realtà mostriamo implicitamente di fare fatica ad accettare che anche le donne possano essere avvocate, ministre o ingegnere. Se colleghiamo la parola “segretaria” solo alla funzione di ausilio, ben difficilmente una donna che raggiunge il ruolo di segretario generale riuscirà a declinare il termine al femminile senza sentirsi svilita, ed avrà bisogno di occultare il suo genere facendosi chiamare “segretario” per acquisire un minimo di autorevolezza.
Insomma, dobbiamo prendere atto che dietro l’uso, o il rifiuto dell’uso, delle parole al femminile, c’è una cultura plasmata da millenni sull'universo maschile che ci impedisce di collegare ruoli di potere o funzioni rilevanti nel lavoro e nella società alle figura femminile….suona male.
Qualcuno dice che, comunque, il problema della parità tra uomo e donna è culturale. Condivido, ma la cultura si trasmette anche attraverso il linguaggio. Forse se iniziamo a parlare di politiche e di magistrate, iniziamo a scalfire lo stereotipo che riserva questi ruoli a soli uomini. E’ un neologismo? Ben venga.
Qualcuno evidenzia che le donne sono sotto rappresentante nelle figure apicali; forse, se riuscissimo almeno a declinare il nome del ruolo apicale al femminile, inizieremmo a capire che le donne possono benissimo fare la segretaria generale e la direttrice senza bisogno di schernirsi.
Il linguaggio non è il problema, ma certo fa parte della soluzione.