27 ottobre 2014, Assemblea provinciale - La relazione della Segretaria GIULIA ROBOL

"Ben ritrovati a tutti voi, delegate e delegati, segretarie e segretari e a tutti gli invitati dell’Assemblea. Ci ritroviamo dopo la pausa estiva, con un tempo che si è un po' dilatato, per parlare stasera di un tema molto importante, il lavoro, con contributi autorevoli che seguiranno il mio intervento. E certo è molto importante che di questo si parli e ci si confronti, non solo per capire cosa sta accadendo sul piano nazionale ma anche per comprendere le risposte che stiamo cercando di proporre sul nostro territorio provinciale e le strategie che intenderemo mettere in campo.
Giulia Robol, 27 ottobre 2014 

La situazione come sapete è molto seria.


Le misure, con cui l’Italia risponde alla richiesta dell’Ue di tagliare dello 0,3% del Pil il deficit nel 2015, valgono 4,5 miliardi di euro.


Lo scrive il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nella lettera inviata al commissario europeo per gli Affari economici, Jyrki Katainen, dopo i rilievi ricevuti da Bruxelles sulla manovra fiscale 2015.


La lettera, indica tre misure per raggiungere l’obiettivo: 3,3 miliardi arriveranno dal Fondo per la riduzione del peso fiscale, 500 milioni dalla riduzione delle quota di risorse domestiche allocate per i fondi di cofinanziamento per la coesione europea ed esentati dai tetti del patto di stabilità domestico che si applica alle regioni, 730 milioni saranno recuperati da un’estensione del regime di reverse charge al settore al dettaglio.


Il momento che l’Italia sta attraversando è tutt’altro che roseo e misure che penalizzino la crescita sono certamente da evitare. L’economia italiana sta affrontando una delle recessioni più gravi e durature della sua storia, ormai giunta al terzo anno, c’e’ un serio rischio di deflazione e stagnazione. Così il ministro si è espresso sulla stampa:  “Un quarto anno di recessione va evitato a tutti i costi perché sarebbe difficile tirarne fuori il Paese”.


L’Italia mantiene comunque i conti pubblici «sotto controllo», con il deficit/pil sotto il 3% nel 2015, - afferma Padoan - e corregge il deficit strutturale di 3 decimi «finanziando simultaneamente lo sforzo straordinario per effettuare quelle riforme strutturali lungamente attese che presentano costi aggiuntivi nel breve periodo». E proprio tra le riforme «strutturali» il ministro annovera gli «ulteriori aggiustamenti nel mercato del lavoro e nella giustizia civile, attesi all’inizio del prossimo anno». Poi si aggiunge un importante piano di privatizzazioni per far fronte al livellamento del debito pubblico.


Tutto questo fornisce un quadro di precarietà e instabilità generali dove i dati e le misure conseguenti, se analizzati rispetto ad una lettura politica che prelude a delle scelte di campo, non possono che portare ad una considerazione. O si fanno riforme strutturali o quantomeno si parte da una prospettiva generativa virtuosa di un sistema di riforme, oppure si fanno riforme strutturali. Non esiste alternativa! Non è il momento di capire come mai il Paese, complice una situazione internazionale che certamente non è ininfluente, sia finito in una condizione simile, non è il momento delle colpe e delle responsabilità politiche, certo è chiaro che i modelli del passato vanno riformati, che la società ha bisogno di guardarsi dentro per capire di cosa è rappresentativo il suo tessuto, che le categorie classiche forse vanno rigenerate e implementate, analizzando sfide diverse e differenti chiavi di lettura. Tutto questo è compito della politica, tutto questo è soprattutto responsabilità di chi si è conquistato la scena in modo anche sorprendente, inatteso alla politica stessa: è compito del Partito Democratico, il principale attore di governo, unica forza politica in questo momento rimasta in sella dopo lo tsunami della fine dei partiti, dopo il declino dell’immagine berlusconiana, forse un declino più legato all’invecchiamento dell’immagine rappresentata, che al sogno che essa incarnava per molti italiani.


Lo sforzo del Partito Democratico nazionale, che per altro condivido appieno, riguarda la volontà di costruire un partito che possa essere maggiormente rappresentativo della società in cui viviamo, un partito che non si pone più l’obiettivo di combattere un presunto nemico (Berlusconi) e che rappresenta categorie ben identificate, ma un partito che si rivolge ai cittadini e che sulla base di ciò che propone, all’interno di un codice valoriale di riconoscimento ma che per altro è anche universale, può diventare attrattivo per tutti e non solo per un elettorato classico. Da qui lo straordinario risultato delle Europee che pone i presupposti per la creazione di una proposta politica a riconoscibilità allargata, dove l’elettorato ti premia sulla base di quanto riesci a fare ma anche sulla tua capacità di trasmettere una speranza, una voglia di cambiamento, la caparbietà del farlo veramente, cosa che il PD fino a prima mai era riuscita a fare.


Un processo di riforme serio è talmente importante per l’Italia che ne va della sua stessa sopravvivenza, ma un Paese come il nostro, avviluppato da anni in proposte non continuative e in una pressoché costante assenza di continuità politica nonostante il lungo periodo berlusconiano, rende urgente la prima delle considerazioni, la stabilità della politica rappresenta la conditio sine qua non per riuscire ad immaginarsi un percorso che possa veramente produrre risultati di cambiamento.


E proprio a questo proposito diventa strategico ciò che sta succedendo all’interno del nostro Partito, nella volontà di interpretare diversamente la società, di proporre regole nuove di coinvolgimento, percorsi diversi di comunicazione, abbattimento di barriere e steccati che la politica stessa aveva prodotto, desiderio di reinventare una forma partito che garantisca collegamento e supporto ai territori con forme però più dirette e più snelle, capendo che i tempi della politica sono diventati a tal punto veloci che i sistemi precedenti e i soliti riti non solo non sono più attuali, ma non servono più allo scopo. 


Il Partito c’è e deve esserci con il suo supporto ideale, la sua capacità di trasmettere valori, principi e coinvolgimento all’interno di progetti, ma l’obiettivo è diventato uscire dal partito e convincere i cittadini che la politica non è la spauracchio di pochi che decidono, ma lo strumento di coinvolgimento di tutti e il sistema che consente di produrre relazioni che si adoperano al confronto di visione, alla possibilità di produrre proposte per indagare i problemi. Per questo non comprendo la polemica tra la piazza e la Leopolda.  E’ chiaro che all’interno del Pd ci sono visioni non sempre coincidenti, non tanto rispetto all’obiettivo da raggiungere ma al come ci si arriva.

La piazza e la Leopolda due modi di interpretare e di dare risposte ad un unico problema, come cambiare il nostro Paese, come risolvere i nodi di fondo, come rispondere ad un processo di modernizzazione, come risolvere le urgenze del l’Italia prime tra tutte il lavoro.


Come anche ho dichiarato sulla stampa, la Leopolda di Firenze non può essere considerata l’associazione al di fuori del Partito, nè essere liquidata in modo altezzoso come l’ennesimo degli escamotage comunicativi di un Premier che a questo riguardo ha solo da insegnare e meno male, non si può dire che la Leopolda è imbarazzante. La Leopolda è un modo diverso di rappresentare il Pd a pieno titolo, in modo molto attrattivo, con grande capacità di coinvolgimento, con sapiente modalità comunicativa aperta a tutti militanti e lancia il messaggio lungimirante che la politica è alla portata di tutti.


Non a caso mi sono chiesta, riprendendo uno spunto per altro già emerso sulla stampa, se forse anche qui in Trentino non sarebbe una bella esperienza organizzare un’importante momento partecipativo come quello di Firenze. E ancora credo che un open Autonomie in collaborazione con le altre regioni a statuto speciale e aperto al contesto europee potrebbe essere possibile.


La piazza, dicevo, è un momento più classico del rappresentare le istanze di alcune categorie, la legittima manifestazione di preoccupazioni e di difficoltà, il modo per rappresentare tangibilmente la vicinanza al mondo del lavoro dalle categorie più riconosciute. Due sistemi che non è opportuno vadano in conflitto, che non ritengo debbano guardarsi con reciproco sospetto, devo però anche dire che la società cambia anche attraverso modalità nuove di rappresentazione comunicativa e tutto questo non può essere liquidato solo come superficiale; si deve analizzare qual è quello che offre risposte maggiori, valutando una posizione incline anche al saper mettersi in discussione e all’approccio a modalità diverse.


L’essere di sinistra è un valore che va declinato e non esiste un unico modo: alle volte, come dicevo prima, se l’obiettivo è comune l’arrivarci può prevedere strade alternative.

Il processo di cambiamento non può comunque riguardare solamente un processo nazionale del Partito; il Partito Democratico del Trentino deve iniziare una profonda riflessione a riguardo, deve interrogarsi sulla sua capacità di leadership nel contesto provinciale, deve chiedersi come, quando e con chi intrepretare la necessità di cambiamento, quali obiettivi di riforma porsi all’orizzonte, come comprendere al meglio la società trentina, come rappresentare il territorio, inteso come realtà di valli e di contesti urbani.


La coalizione trentina di centrosinistra, rappresentata da noi e dai nostri alleati UPt e Patt, vive certamente un momento di disorientamento e di poca coesione. Le elezioni amministrative del 2015 rappresentano da questo punto di vista un test interessante per capire cosa succederà e come si ripartirà la fiducia che l’elettorato pone nell’attuali forze di governo. Certamente un processo di cambiamento si innescherà anche qui e da tempo mi chiedo se questa condizione di stanchezza che troppo spesso percepiamo nei vari passaggi istituzionali non debba vedere anche qui il partito interprete di un processo di allargamento della proprio lettorato, di una maggior capacità di interpretazione del tessuto sociale trentino. Il PD del trentino così come il PD nazionale deve chiedersi come allargare la sua base di coinvolgimento, come meglio radicarsi nel territorio trentino, beneficiando del suo essere partito di opinione ma non solo. Il Pd del trentino deve ambire a diventare quella forza di governo capace, attraverso il confronto tra le parti e il dialogo anche serrato all’interno della coalizione, di rappresentare il maggior punto di riferimento politico per i cittadini trentini.


Per fare questo è necessario che il partito non si appiattisca solo sulla comprensione e la difesa di quanto avviene all’interno delle istituzioni, ma cerchi di andare oltre proponendo un modello reinterpretativo, la possibilità di coinvolgimenti ulteriori, la costruzione di progetti che affrontino le dinamiche del territorio.


E la questione principe non è solo il Trentino che vorremo, ma anche una riflessione sul nostro modello di autogoverno, sul significato vero della nostra Autonomia e sullo sviluppo che per essa ci immaginiamo.

Non sono tra quelli che considera così negativo l’accordo finanziario di recente approvazione, stipulato tra lo Stato e la Provincia. E mi spiace anche constatare che alle volte la polemica arriva ancora prima della constatazione dei fatti. Molti hanno paragonato l’accordo di Milano, ritenuto migliore, a quest’ultimo recente; io lo considero un paragone impari, anzi mi spingo a dire che forse qualche anno fa forse si poteva arrivare a condizioni non così critiche come le attuali, forse si poteva osare di più. Ma non è questo il punto.

Le recenti polemiche delle dichiarazioni presunte o meno della ministra Boschi, rispetto alla questione dei governi locali morosi, hanno scatenato il putiferio.

E’ assolutamente condivisibile che lo Stato, considerando anche l’obbligo del pareggio di bilancio introdotto con legge costituzionale nel 2012, chieda ai governi locali, siano essi Regioni o Provincie, di fare la propria parte in termini di risanamento dei conti pubblici, non solo in questa fase di spending review, ma in modo continuativo e strutturato, perché un bilancio sano è condizione necessaria affinché abbiano luogo gli investimenti sia da parte del privato che da parte del pubblico.


Tuttavia, ciò che preoccupa in realtà è la correlazione tanto diretta quanto pericolosa tra incapacità gestionale dei conti pubblici e grado di autonomia dell’autogoverno, che è poco più che una questione per nulla consequenziale. Se poi consideriamo quali sono le ragioni a Statuto speciale, la conferma dell’inappropriatezza di questa correlazione si rafforza ulteriormente. Dubito, infatti, che Friuli Venezia Giulia (di cui Debora Serracchiani è Presidente), Regione Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta abbiano i bilanci in dissesto.


Credo che il giudizio della ministra Boschi fosse, in realtà, indirizzato a situazioni generali di sprechi e di mala gestione delle risorse pubbliche di alcune regioni. Per altro sappiamo della smentita di quanto da lei detto o attribuito, infatti il punto non è certo questo.

Dobbiamo però avere la capacità di far conoscere e far comprendere che il nostro modello di governo non si basa solo su una questione finanziaria, dobbiamo prendere atto che non è facile in questo momento dove la spinta è prevalentemente accentratrice far comprendere le nostre ragioni d’essere. Ciò non può e non deve comunque scoraggiarci, il raggio d’azione va però ampliato, la riflessione sull’autonomia non può riguardare solo le regioni a statuto speciale, ma deve certamente rivolgersi ad un arco europeo dove modelli come il nostro trovano il proprio radicamento e su questo innescare processi virtuosi di studio e di confronto, coinvolgendo la dirigenza del Pd nazionale nel ragionamento. E qui torna l’idea dell’open Autonomie proprio per alzare il tiro, aprire l’orizzonte, trovare risposte oltre il confine laddove al momento si percepisce chiusura, forse solo per la non conoscenza.
Per altro mi preme ricordare che il frutto dell’accordo con Roma non recepisce solo un questione economica. I 904 milioni frutto dell’accordo non sono una cifra a caso, ma nascono da un modello molto innovative proposto dal Trentino, quello del residuo fiscale, che lo Stato non ha potuto approvare perché avrebbe scardinato i rapporti con le altre regioni, che non si basano su un modello perequativo. Il contributo viene assunto con ulteriori competenze e con l’uscita dal patto di stabilità a partire dal 2018.
Naturalmente l’analisi dell’accordo prevede luci e ombre, ma il momento è chiaramente molto serio e come detto prima non ritengo di essere troppo critica considerando il contesto da cui si parte.

In conclusione un’ultima considerazione a mio avviso fondamentale. La sfida del territorio provinciale nel prossimo futuro sarà quella di un necessario quanto fondamentale cambio di passo. L’urgenza di passare da un sistema di redistribuzione delle risorse ad un sistema generativo delle stesse deve essere assunto come input primario.

La politica dovrà fare in questo senso scelte mirate, cercando di rendere favorevole la nascita di un tessuto produttivo virtuoso che serva allo scopo.

Ragionare su politiche di sviluppo economiche che possano favorire il territorio deve partire dalla considerazione che il sistema va innovato, anche attraverso il credito, attraverso la dismissione di patrimonio pubblico se necessario, con processi di partnership pubblico-private che rendano anche l’urbanistica protagonista. Gli enti locali vanno coinvolti e va trasmesso loro il know how necessario per far fronte a progetti possibili. In ultimo anche la leva dei tributi locali e delle tariffe può tornare utile.

Concludo, ringraziandovi per l'attenzione e auspicando un forte coinvolgimento ideale da parte di tutti all'interno del Partito, perché coesione e senso di squadra consentono al confronto di produrre idealità e progetti importanti di cui certamente il nostro Trentino ha bisogno, per delineare un processo di sviluppo per l'immediato futuro.



Vi ringrazio per l’attenzione."