L'acceso dibattito sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (vedi allegato) non mi piace affatto. Lo ritengo datato e fuorviante, funzionale ad uno scontro simbolico fra due approcci entrambi fuori dal tempo ma che ancora segnano la dialettica politica italiana.
Michele Nardelli, "Corriere del Trentino", 7 ottobre 2014
Sia chiaro. Considero la Legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, fra le più significative conquiste di civiltà che il ciclo di lotte degli anni '60 abbiano prodotto, consolidando sul piano legislativo quel che si era costruito nel conflitto sociale sul piano delle relazioni industriali e sindacali.
Prima di allora, infatti, era l'arbitrio. Tranne che in alcune grandi aziende dove i rapporti di forza erano favorevoli ai lavoratori, nel vasto tessuto industriale ed artigianale del paese il datore di lavoro aveva prima di allora piena padronanza, disponendo attraverso il licenziamento di un'arma di ricatto molto forte. Con l'introduzione del principio di “giusta causa” venne invece sancita la sindacabilità del licenziamento, con riferimento alle aziende che avevano più di quindici dipendenti.
Una divisione che rifletteva i rapporti di forza di allora ma anche un contesto di boom espansivo nelle produzioni che richiedeva anche da parte del padronato un certo livello di certezza nelle relazioni industriali. Nella stessa filosofia, la prima parte dei contratti collettivi nazionali di lavoro era dedicata alle norme che regolavano l'organizzazione del lavoro e la gestione dei rapporti sindacali, a segnare quello che allora definivamo “controllo operaio” dell'insieme del ciclo produttivo.
Una divisione fra aree forti e deboli del mercato del lavoro che rimase per anni come una sorta di vulnus irrisolto, tanto è vero che il tema dell'estensione dello Statuto dei Lavoratori alle aziende con meno di sedici dipendenti divenne a più riprese oggetto di iniziative politiche, referendarie e legislative. Ricordo che nell'ormai lontano 1980, allora come Democrazia Proletaria, proponemmo due referendum che avevano per oggetto il ripristino della contingenza nella liquidazione e per l'appunto l'estensione della legge 300 alle piccole aziende. Iniziative referendarie che portarono ad un miglioramento della situazione tanto che nel 1990 – per evitare la consultazione – venne introdotta una modifica legislativa (legge Cavicchioli ed altri) eliminando il cosiddetto licenziamento “ad nutum” (secondo la propria volontà, senza che l'altra parte possa opporsi) anche per gli assunti a tempo indeterminato nelle aziende sotto i sedici dipendenti, prevedendo un arbitrato e la possibilità di una forma di risarcimento per il licenziato. Di questa attenzione Matteo Renzi, quando parla di una sinistra che si è fatta carico solo dei soggetti più forti, probabilmente non sa nulla.
Certo, a partire dagli anni '80, i rapporti di forza cambiarono e con essi anche le condizioni per la tutela del lavoro: iniziarono gli anni della messa in discussione delle conquiste sociali e con essi della precarietà del lavoro, della delocalizzazione delle imprese, dell'ingresso nel mercato del lavoro di una manodopera “straniera” le cui condizioni contrattuali erano quelle vigenti nel paese d'origine (secondo la logica prevista dalla direttiva Bolkenstein, quand'anche mai adottata).
Un nuovo contesto nel quale i confini nazionali (non solo contrattuali) si sfarinavano progressivamente di fronte ad un'interdipendenza che entrava nelle vite, nelle relazioni sociali, nel lavoro. Con l'affrancamento dal colonialismo e l'entrata a pieno titolo nella scena mondiale di grandi popolazioni prima considerate sottosviluppate – e dunque con l'indisponibilità di materie prime precedentemente considerate illimitate nella loro disponibilità – venivano meno i margini su cui reggeva il patto fra capitale e lavoro che aveva consentito in gran parte dell'occidente il compromesso keynesiano.
Per questo l'attuale confronto è fuori del tempo. Una dialettica nella quale si confrontano i fautori di un nuovo che cancella le conquiste senza porsi il problema di un diverso orizzonte sovranazionale e i sostenitori della resistenza in virtù di diritti che nel nuovo contesto globale assomigliano a privilegi, non mi piace. L'orizzonte di entrambi è lo sviluppo senza limiti.
Ma oggi noi siamo già oltre il limite. Lo è un pianeta che al 21 agosto di ogni anno già esaurisce le risorse che gli ecosistemi riescono a produrre, lo sono gli equilibri ambientali che portano con sé il rapido cambiamento del clima mettendo in discussione – per la prima volta nella storia dell'uomo – la propria esistenza, lo è nelle scelte di chi non è disponibile a fare un passo indietro dichiarando non negoziabile il proprio stile di vita, sapendo che questo significa una sola cosa, la guerra.
Forse allora noi dovremmo riflettere su cosa significa il lavoro in un contesto nel quale dovremmo ridurre – altro che crescere! – i consumi, riqualificandoli e ridisegnando il bisogno di lavoro (la sua qualità e la sua quantità) per vivere dignitosamente e senza che questo metta in discussione il diritto all'esistenza di qualcun altro.
E' un cambio di prospettiva quello che s'impone. Invece nel dibattito in corso (dentro e fuori del PD) il confronto avviene su quale dovrebbe essere la strada per tornare a crescere, su come affrontare e superare una crisi che se è strutturale semplicemente non c'è, perché è la nuova realtà con la quale dovremmo abituarci a fare i conti.
S'impone un rovesciamento di paradigma, oggettivamente non facile anche perché richiede un cambiamento culturale (e di stili di vita) che nessuno (o quasi) propone e che non crea facile consenso. Perché “fare meglio con meno” è un progetto inviso, non è la difesa corporativa di quel che si ha, ma una prospettiva responsabile di cambiamento profondo. Alla quale si preferisce il proprio giardino, incuranti del fatto che se non si cambia prospettiva questo verrà spazzato via dalla militarizzazione dell'immaginario prima ancora che della realtà.
Lo Statuto dei lavoratori