Il premier Renzi che dagli Stati Uniti tiene il punto sull’articolo 18, la segretaria della Cgil Camusso che minaccia lo sciopero generale, Fassina che diffonde un elenco di dieci puntutissime domande al presidente del Consiglio (e suo segretario) sul merito delle proposte del Jobs Act. Mentre incombe la riunione di direzione di domani in cui il Pd farà la conta. Ce n’è più che abbastanza per sentire da Giorgio Tonini, fresco di nomina nella segreteria nazionale dei democratici, una previsione su come andrà a finire.
P. Morando, "Trentino", 28 settembre 2014
Anche perché il senatore trentino fa parte di un gruppo parlamentare i cui i “renziani” come lui sono in netta minoranza. Ed è proprio a Palazzo Madama, dove il governo conta di una maggioranza poco più che risicata, che è in discussione la legge delega sul lavoro.
Senatore Tonini, perché questa improvvisa accelerazione sull’articolo 18? Sono anni che si dice che bisogna cambiare in profondità le regole del mercato del lavoro. E io sono tra quelli che lo sostengono da tempo. Lo Statuto dei lavoratori approvato nel 1970 aveva davanti a sé il mondo del lavoro della fabbrica fordista degli anni ’60, che si pensava sarebbe diventato il modello principale, anzi l’archetipo organizzativo, di tuto il mondo del lavoro: occupazione standardizzata e uguale per tutta la vita. E con la tutela modellata appunto su un posto di lavoro pensato per sempre. Ma oggi di quell’archetipo non resta ben poco. E la tendenza è verso un ulteriore progressivo ridimensionamento, che sarà tanto più veloce quanto più rapidamente avanzeranno il cambiamento demografico, cioè l’allungamento della vita, e l’accelerazione tecnologica.
Quindi addio articolo 18? Io dico che per essere fedeli alla base morale dello Statuto dei lavoratori, cioè il considerare il lavoratore cittadino soggetto di diritti e non suddito, la tutela va estesa: non più solo e principalmente al posto di lavoro, ma all’intero mercato del lavoro. Attrezzare cioè i lavoratori di oggi e di domani a essere competitivi nell’arco dell’intera vita lavorativa, che ormai dura più di 40 anni, spesso quasi 50: un arco di vita assai probabilmente fatto di più lavori che si succedono nel empo. Mentre oggi, se un lavoratore perde il posto, nel caso migliore si trova in una situazione di tutela mediocre: la cassa integrazione per un certo periodo, poi più nulla. In quello peggiore si ritrova addirittura senza alcuna tutela.
La sterminata platea del lavoro precario giovanile. Ma anche i dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti, che non godono dell’articolo 18. Il cuore della proposta del governo è invece la costruzione di un sistema universale di ammortizzatori sociali, che assicurino i lavoratori contro il rischio della disoccupazione. L’obiettivo è garantire tutti, indipendentemente dalla loro situazione contrattuale. A me ricorda la storica battaglia dei democratici americani sulla sanità: negli Stati Uniti la copertura sanitaria è diversa a seconda del contesto lavorativo, con gravi squilibri, mentre da noi al contrario la copertura contro il rischio malattia è universale. Ecco, sulla disoccupazione l’Italia vive invece oggi una situazione paragonabile a quella americana sulla copertura sanitaria.
Non bastava l’Aspi introdotta dalla recente riforma Fornero, che tra l’altro ha smantellato buona parte delle originarie tutele previste dall’articolo 18? I fatti dicono di no, anche perché l’Aspi è stata finanziata in maniera insufficiente. Servivano e servono più risorse.
Ma le coperture non si trovano dietro l’angolo. Lo scambio con l’Europa sta proprio qui: poter contare su maggiori margini di flessibilità sui parametri di finanza pubblica per poter avere risorse da mettere in campo per riforme incisive. Compresa la vexata quaestio dell’articolo 18.
L’ex sottosegretario all’economia Fassina ha appena formulato dieci domande a Renzi. Questa è la numero nove: “È consapevole il governo che in nessun paese europeo alla persona che lavora è sottratto il diritto di rivolgersi a un giudice per licenziamento senza giustificato motivo?”. Ma anche in Italia si continuerà a poter ricorrere al giudice, che per licenziamenti discriminatori potrà ancora stabilire il reintegro. Il fatto è che nel resto d’Europa ci si affida alla giustizia solo per quella ragione, e non per altre, in cui invece è appunto prevista la semplice sanzione pecuniaria. E proprio qui entra in ballo il concetto di “tutele crescenti”, come dice appunto la legge delega: maggiori tutele per anzianità maggiori, per disincentivare l’uso disinvolto del licenziamento da parte delle imprese. E in più ammortizzatori sociali che tutelino il reddito e una serie di servizi per l’impiego che aiutino il lavoratore a ricollocarsi: in Germania a occuparsene sono 110 mila persone, in Italia poche migliaia.
Ha letto che l’Ocse ha appena rivisto i propri giudizi? Sostiene ora che l’Italia non soffre affatto di rigidità del mercato del lavoro e che anzi qui la flessibilità è maggiore che in Germania. Se così fosse, tanto zelo sull’articolo 18 non si giustificherebbe. Sì, ho visto. Ma l’elevata flessibilità è dovuta a due fattori: il primo è la crescente area di lavoro precario, in cui però si concentra tutta la flessibilità. Il che avviene sulle spalle di una parte minoritaria, i lavoratori più giovani. E infatti quando un’impresa è in difficoltà si libera proprio di loro, non rinnovando i contratti. Poi c’è lo scalino dei 15 dipendenti, cioè le piccole e piccolissime imprese per le quali l’articolo 18 non ha effetti: e qui si scarica l’altra quota di flessibilità, visto che le aziende possono licenziare senza che i lavoratori possano avvalersi di protezioni. A me sembra una sorta di apartheid: aree come le grandi aziende in cui si concentrano una relativa sicurezza e bassa flessibilità, e altre di totale insicurezza e altissima flessibilità.
Il Jobs Act intende quindi riequilibrare i due piatti della bilancia? Ma con un’operazione a somma positiva: aumentando la flessibilità buona e favorendo la ricollocazione. E tornando all’articolo 18: giorni fa a un dibattito in tv mi è stata citata una sentenza di reintegro di un lavoratore edile, che era stato licenziato perché non riusciva più a sollevare pesi. Risultato: ora l’impresa lo ha riassunto e lo paga, senza che questo possa lavorare. Non sarebbe stato invece più intelligente garantirne il reddito durante un percorso di ricollocazione altrove?
La Cgil ha già minacciato uno sciopero generale: nel 2002, per difendere l’articolo 18, Cofferati portò al Circo massimo quasi 3 milioni di persone. Ma al governo c’era Berlusconi, non il Pd. Intanto perché uno sciopero sia generale deve essere proclamato da tutti i sindacati. Mentre non mi risulta che abbiano la stessa posizione. E anche nella Cgil c’è grande preoccupazione per l’uso troppo disinvolto di quest’arma per difendere uno status quo indifendibile.
E le divisioni nel suo partito? Mi chiedo che senso ha chiudersi a riccio per mantenere un sistema che ci ha consegnato bassa produttività, bassi salari e bassa occupazione: che cosa abbiamo da difendere? Per l’Italia è vitale uscire da questo schema. E ogni cambiamento necessario, e questo lo è, vale anche un po’ di conflitto.