Un doppio no a secessione e centralismo

Da Edimburgo e da Londra, la settimana scorsa, sono arrivate due buone notizie (e forse potrebbe arrivarne una terza), anche e soprattutto per noi, trentini e altoatesini - sudtirolesi. La prima buona notizia, arrivata da Edimburgo, è la sconfitta della cultura della secessione, della separazione, dell'indipendenza. È una cultura attraverso la quale, in modo subdolo, uno dei mali peggiori del secolo scorso cerca di sopravvivere, incistandosi nel nuovo secolo: mi riferisco al nazionalismo.
Giorgio Tonini, "Trentino", 23 settembre 2014

All'idea che a ogni identità nazionale debba corrispondere una struttura statuale, dotata dei caratteri della sovranità. Sull'altare di questa idea, peraltro irrealizzabile nella sua purezza e dunque fonte inesauribile di conflitti, l'otto e il novecento hanno sacrificato milioni di vittime: in Europa e, per colpa dell'Europa, in tutto il mondo. Gli scozzesi, o meglio una parte di loro, si erano messi a ripercorrere questa strada, convinti di guardare al futuro, mentre in realtà stavano rischiando di resuscitare un passato che è meglio per tutti che resti nei libri di storia. La seconda buona notizia è arrivata da Londra.

Commentando lo scampato pericolo della secessione scozzese, il primo ministro britannico, David Cameron, ha preso un impegno di portata storica: trasformare il Regno Unito, uno degli stati più centralisti del mondo, in uno stato federale, capace di riconoscere ampi margini di autonomia e di autogoverno a tutte e quattro le regioni-nazioni che lo costituiscono, non solo la Scozia, ma la stessa Inghilterra e poi il Galles e l'Irlanda del Nord.

Chissà se lungo questa strada, la strada segnata dal principio di sussidiarietà, i sudditi di Sua Maestà britannica riscopriranno la lungimiranza e la fecondità, accanto alla cultura dell'autonomia, dell'ideale europeo: di quella intuizione di pochi sognatori, che tra mille resistenze ha sorretto e sorregge la straordinaria impresa della condivisione della sovranità, attraverso l'Unione degli stati e dei popoli d'Europa. Sarebbe questa la terza buona notizia da Oltremanica.

Difficile, ma non impossibile, perché la cultura dell'autonomia e quella europeista non sono che due facce della stessa medaglia, due dimensioni coessenziali dello stesso progetto-modello federalista: un progetto-modello che non mira a distruggere gli stati nazionali, per sostituirli con nuove "piccole patrie" che ne risulterebbero la grottesca caricatura, ma semmai a contestarne in radice la storica pretesa del monopolio della sovranità. Non a caso, del resto, i padri dell'Europa, a cominciare dal nostro Degasperi, del quale abbiamo ricordato poche settimane fa il 60o anniversario della morte, erano anche convinti sostenitori delle autonomie regionali e locali.

Alla base di questo connubio tra i due federalismi, c'è infatti l'idea della "con-divisione della sovranità", tra diversi livelli di governo (europeo, nazionale, regionale, locale) come compimento del processo di costruzione della democrazia, avviato con l'idea liberale della "divisione-separazione dei poteri" (legislativo, esecutivo, giudiziario). Da assoluta e indivisibile, qual era nella visione monista di Hobbes, la sovranità diviene così limitata e condivisa, sulla base di una visione pluralista, regolata dal principio di sussidiarietà. Il referendum scozzese, le altre vertenze regionali aperte in Europa, lo stesso nostro percorso di riforma costituzionale del Senato e del titolo V, ci dicono peraltro che la condivisione della sovranità non è un dato raggiungibile in via definitiva una volta per tutte, ma è un processo mai concluso, nel quale la traduzione concreta del principio di sussidiarietà è frutto più della competizione tra i diversi livelli di governo, che di astratte definizioni di principio.

Così, il livello effettivo di sovranità degli stati membri dell'Unione europea non è affatto lo stesso, ma dipende dalla forza reale dei singoli sistemi-paese, in termini di stabilità politico-istituzionale, di coesione sociale, di efficienza economica. È evidente, per fare un esempio scontato, che in termini reali (e non, ovviamente, formali) il livello di sovranità di cui dispone in Europa la Germania è oggi sensibilmente superiore a quello dell'Italia. Ed è altrettanto evidente che l'Italia ha una sola strada davanti per ampliare la sua quota di sovranità ed è quella di rendersi più performante, attraverso le ineludibili riforme istituzionali e socio-economiche.

Allo stesso modo, l'equilibrio tra stato centrale e autonomie regionali (speciali e non) e locali, nella condivisione della sovranità, assai più che dalla benevolenza di governi più o meno "amici", dipende dalla capacità di queste ultime di dimostrarsi più efficienti dello stato stesso. Secondo il celebre, profetico ammonimento di Degasperi, mai abbastanza citato, nel suo discorso all'Assemblea costituente del gennaio 1948: "le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per spendere molto, ma facciano in modo di creare una amministrazione più forte e che costi meno.

Solo così le autonomie si salveranno ovunque, perché se un'autonomia dovesse sussistere a spese dello stato, questa autonomia sarà apparente per qualche tempo e non durerà per un lungo periodo".