Qualche tempo fa, in un documento redatto con la collaborazione di amici operatori della sanità come contributo al Pd, ragionavo sulla necessità che la rete degli ospedali provinciali fosse ripensata con l'intenzione di superare logiche di separatezza e autoreferenzialità, per collegarla agli altri servizi in modo più costante e fluido. In questo senso, anche il criterio del mantenimento dell'ospedale quanto più possibile vicino al luogo di vita dei cittadini doveva essere superato in favore della scelta della struttura che offre il servizio più adeguato al problema di salute da affrontare. M.Agostini, "L'Adige" 17 luglio 2014
All'interno dell'attuale rete degli ospedali, quindi, proponevo di riconoscere il particolare ruolo di strutture che assicurano livelli di alta intensità e complessità delle cure. E, per ottimizzare l'efficienza e ridurre gli sprechi e i costi, sostenevo come necessario scegliere cosa fosse giusto decentrare e cosa, invece, andava accentrato.Ero e sono convinto, infatti, che il nascere, il gestire l'oscillante andamento delle cronicità, il morire, siano momenti che vanno, nei limiti del possibile, demedicalizzati. E ha dunque senso, quando non gestibili a domicilio, che si pensi di fornire i servizi necessari nell'ambito di strutture periferiche di Comunità, che a queste funzioni dovrebbero essere orientate, contando anche sulla rete delle residenze sanitarie nella loro nuova veste di Aziende di servizio alla persona.Al contrario, le situazioni patologiche che richiedono terapie intensive o l'uso di supporti tecnologici particolarmente complessi o abilità specialistiche straordinarie, sostenevo andassero centralizzate in strutture con valenza multizonale, capaci di accogliere la casistica da bacini di utenza più grandi, di collegarsi con altri centri anche extraregionali, e di garantire - in ultima analisi - il miglior risultato clinico possibile.
Quel contributo, redatto come detto mesi fa, potrebbe venir interpretato, alla luce del dibattito di questi giorni, come un pronunciamento a favore del mantenimento dei reparti di ostetricia in tutti gli ospedali del Trentino. Non è così. È del tutto ragionevole pensare che un reparto ospedaliero con un tasso di attività specifica decisamente basso possa essere messo in discussione, per molti buoni motivi. Non ritengo, nello stesso tempo, che sia una prospettiva inevitabile o auspicabile prevedere che tutti i trentini nascano a Trento o a Rovereto.Forse bisogna provare ad avere più fantasia. Qualche anno fa mia figlia ebbe la sua prima bambina a Birmingham, in Inghilterra, dove risiedeva. Partorì in una sorta di Casa del parto, vicina al policlinico della città, assistita da due ostetriche in una stanza che somigliava a un salotto, dove non vidi l'ombra di un lettino ginecologico. Non ci fu bisogno di interventi medici né durante né dopo il parto. Il giorno seguente tornò a casa e lì ricevette, nei giorni successivi, la visita di ostetrica e puericultrice per verificare che tutto procedesse per il meglio. Aveva con sé un opuscolo con tutti i numeri telefonici cui rivolgersi per ogni necessità o per ogni urgenza che si presentasse. Forte di questa esperienza, nell'autunno scorso, tornata a Trento e incinta della seconda figlia, si informò circa la possibilità di partorire in casa. Così avvenne: un'ostetrica esperta la seguì nelle ultime settimane, mentre l'ospedale avrebbe potuto accogliere la partoriente in caso di necessità. Non ce ne fu bisogno e, meno di un'ora dopo il parto, un pediatra arrivò a casa per la visita e le certificazioni del caso. L'ostetrica rimase a disposizione per qualche settimana con visite regolari e programmate.Sento già il coro delle obiezioni, tutte comprensibili e fondate; del resto io stesso ero perplesso e un po' preoccupato di fronte alle scelte di mia figlia. Il tasso di sicurezza si abbassa? Probabilmente si, ma forse meno di quanto si pensa, sentendo la prudenza e le precauzioni organizzative che mi hanno descritto. E, d'altronde, in molti paesi europei il Sistema sanitario organizza servizi di questo tipo. Penso che per i cittadini sarà forse più accettabile il provvedimento di chiusura di un reparto, così come tradizionalmente concepito, se contestualmente si presenteranno proposte alternative come potrebbe essere, ad esempio, una Casa per la nascita, gestita da ostetriche, supportate dalla pronta disponibilità di medici resi esperti dall'essere incardinati nei reparti con grande casistica.Capisco che proposte come queste richiedono un impegno che è anche culturale, sociologico e psicologico per modificare il modo di pensare alla salute e ai servizi sanitari, stretti sempre più tra aspettative irragionevoli, forza crescente delle argomentazioni mercantili e aziendalistiche, mentalità risarcitorie. Ma è necessario che le persone si riapproprino della loro «dimensione salute» partendo dalla conoscenza del proprio corpo, da un più sereno approccio alla realtà inevitabile della malattia, dell'invecchiamento e della morte, da un giusto grado di autogestione delle più comuni e ricorrenti problematiche sanitarie fino a tornare titolari della possibilità di fare o proporre scelte autonome.Nello stesso tempo, anche noi medici dovremmo evitare di mandare messaggi ambigui e contraddittori. Come quando sui media, ad esempio, parliamo della subdola ed infida modalità con cui l'infarto miocardico si nasconde dietro sfuggenti sintomi toracici o quando, nel caso di un ictus, enfatizziamo l'importanza dei primi minuti per l'efficacia della terapia, salvo poi contemporaneamente pretendere che i cittadini non affollino i pronto soccorso per piccoli disturbi.
È una strada lunga, che richiede impegno e buona volontà da parte di tutti. Percorrendola potremmo però scoprire che una qualche struttura sanitaria modificata o impoverita di funzioni o allontanata da casa, non costituisce necessariamente un fatto inquietante.
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