Ho letto con interesse la riflessione di Enrico Negriolli, già dirigente della Provincia autonoma di Trento. Il suo argomentare, a mio avviso, ha alcuni pregi. È infatti il primo dirigente provinciale, seppure in pensione, che interviene in un dibattito con riferimento ad una riforma, quella istituzionale, sulla quale vi è stato un contributo determinante della dirigenza provinciale. Luigi Olivieri, "L'Adige", 9 luglio 2014
Lo stesso Negriolli esprime senza infingimento il suo pensiero personale, che penso non sia molto dissimile da quello di gran parte dei dirigenti della Provincia.La franchezza è necessaria quando si deve fare un rendiconto di una riforma che ha qualche anno di vita e a detta di tutti non ha funzionato. Perché non ha funzionato? Perché l'obiettivo che perseguiva era impossibile? O perché quell'obiettivo è stato ostacolato da chi avrebbe dovuto collaborare, come la dirigenza provinciale?Potrebbero essere molte altre le domande però penso che rispondere a quelle prospettate sia necessario per ragionare concretamente nel momento in cui il legislatore provinciale intende intervenire con una novella in merito.Prima questione. Non possiamo permetterci, dice Negriolli, l'applicazione del principio di sussidiarietà costituzionalmente previsto, nella nostra provincia. Cosa significa? Che i poteri, anche quelli parzialmente trasferiti, debbono tornare ad una gestione centralizzata nelle mani del presidente e degli assessori ed in altre parole in mano agli alti dirigenti o dirigenti generali della Provincia. È proprio questa la situazione che la nostra autonomia e le sue istituzioni stanno vivendo? La crisi economica e finanziaria è tale da impedire che i territori trentini, molto diversi tra loro, possano contribuire a costruire con il governo provinciale e con il consiglio provinciale il loro sviluppo? Sono state veramente trasferite le funzioni indispensabili per la programmazione socio economica e la programmazione urbanistica per impedire alla Provincia una regia dello sviluppo provinciale?La risposta a questa molteplicità di domande è molto semplice. I problemi delle Comunità di valle sono quelli di un ente che non avendo poteri reali non è ritenuto soggetto politicamente determinante per il confronto ed il coordinamento dei territori che dovrebbe rappresentare.Infatti in materia di programmazione sociale gli atti di indirizzo che ogni anno la Provincia emana, contestualmente all'assegnazione delle risorse finanziarie alle Comunità, sono talmente dettagliati che non può parlarsi di trasferimento di funzione bensì di esercizio di delega (persino il costo della quota giornaliera dei soggiorni estivi al mare dei disabili è determinata dalla Provincia). Per non parlare di programmazione urbanistica le cui competenze sono talmente inconsistenti dovendo da un lato rispettare i perimetri dell'edificato dei Comuni definito con Prg e dall'altro le norme del Pup e se presente, dei vari parchi naturali, che la pianificazione urbanistica si riduce a poca cosa. Persino i Comprensori nei primi anni della loro esistenza avevano poteri, risorse umane e finanziarie che le odierne Comunità di valle non possono neppure sognare di avere.Perché ciò è successo nonostante la legge istitutiva fosse molto precisa in proposito prospettando trasferimenti di funzioni in materie definite? La risposta a questa domanda la si trova anche nella riflessione di Negriolli, ossia la strisciante opposizione della burocrazia provinciale che da un lato vedeva perdere la propria centralità e dall'alto avrebbe dovuto porre mano alla riforma della burocrazia provinciale e mettere in discussione il proprio futuro e la sua inamovibilità. Questa situazione, che era facilmente immaginabile, doveva esser contrastata da una politica forte che garantisse l'applicazione della legge che aveva approvato (ricordo che la legge istitutiva delle Comunità nasceva come legge di riforma della Provincia ed è stata approvata da quasi tutto il Consiglio provinciale con grande apporto anche delle minoranze consiliari).Certo vi è anche la problematica dei Comuni, il cui numero e dimensione sono tali da non permettere una razionale gestione delle risorse pubbliche qualora il rapporto fosse incentrato solo tra provincia e Comuni. Ma il contrasto tra le Comunità di valle e i comuni è stato artatamente creato al sol fine di far fallire la riforma. Le Comunità sono nate ed ancora sono gli strumenti al servizio dei Comuni proprio al fine di favorire aggregazioni e fusioni e per permettere loro di pensare il territorio in funzione di un'area più vasta dei loro confini comunali nella quale programmare uno sviluppo sociale, economico ed urbanistico in prospettiva in un tempo che ha radicalmente mutato il futuro di tutti.È in questo contesto che l'elezione diretta degli organi della Comunità acquista tutta la sua forza e validità. Vi è la necessità di una classe politica che deve pensare ad amministrare una dimensione sovracomunale rispetto alla quale i sindaci hanno già dimostrato, oggettivamente, di non essere in grado di fare (oltre 30 anni di Comprensorio gestito dai sindaci dei comuni lo hanno ampiamente comprovato). Le Comunità devono essere vissute come un ente non contro i Comuni bensì al servizio dei Comuni per permettere loro di meglio trasformarsi (come hanno saputo fare nei secoli) per meglio adempiere al mandato a cui saranno chiamati anche in futuro.
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Partito Democratico del Trentino