Patto di speranza non rabbia cieca

Che l'Europa conti, e molto, per il futuro concreto di tutti e di ciascuno di noi, sono proprio i suoi critici più arrabbiati a dimostrarlo. Se l'Europa non contasse nulla, se fosse solo vuota retorica, non varrebbe la pena di occuparsene. 
E nemmeno di andare a votare, domenica prossima 25 maggio, per l'elezione del nuovo Parlamento e l'indicazione del presidente della Commissione. Ma l'Europa conta, eccome se conta, ci dicono i tanti partiti e partitini della rabbia antieuropea.
Giorgio Tonini, 20 maggio 2014 

Al di là della Manica, o sulle rive del Baltico, è stata l'Europa, dicono gli arrabbiati del Nord, ad averci portato in casa, a noi formiche laboriose, quelle oziose cicale degli italiani, dei greci, degli spagnoli e dei portoghesi.

Tutta gente che pensa di poter vivere passando le notti in bianco a fare «bunga bunga» e indebitandosi fino al collo, tanto poi ci pensiamo noi nordici, con il nostro lavoro, a pagare il conto.

Dalle nostre parti, sulle rive del Mediterraneo, gli arrabbiati del Sud dicono la stessa cosa, naturalmente cambiando favola, usando al posto di quella della cicala e della formica, la novella del lupo e dell'agnello: se stiamo male, se la recessione e la disoccupazione ci stanno strangolando, la colpa è dell'Europa a trazione tedesca e nordica, l'Europa della Merkel e delle banche, che non si sa più cosa sia la solidarietà tra i popoli ed è diventata un mostruoso lupo famelico, che cerca solo pretesti per sbranarci.

Sia i nordici che i mediterranei hanno buone ragioni per arrabbiarsi: e non a caso i sondaggi danno in forte crescita i partiti e partitini della rabbia (ce ne sono ormai a iosa, di tutte le taglie e di tutti i colori, in quasi tutti i paesi).

Hanno ragione i nordici, perché è vero che noi mediterranei, italiani in testa, invece di approfittare, come hanno fatto i tedeschi, della lunga estate dell'euro a bassi tassi e spread zero, per fare le riforme che ci mettessero in grado di diventare competitivi e affrontare così l'inverno della crisi, abbiamo preferito praticare per anni la comoda arte del rinvio. Ma ha buone ragioni dalla sua anche la rabbia di noi mediterranei quando diciamo che, giunti a questo punto, in piena recessione, una politica economica fatta solo di austerità è una follia suicida e nessuno ci può chiedere di suicidarci: anche perché finiremmo per trascinare tutta l'Europa nella nostra rovina.

E tuttavia, due ragioni (opposte fra loro) per lasciarsi andare alla rabbia non fanno una buona ragione per dare la nostra fiducia e il nostro voto alle grandi o piccole forze antieuropee. Il loro limite invalicabile è infatti che non sanno e non possono andare oltre l'espressione di una rabbia disperata. Non possono darci la speranza in un cambiamento vero e concreto. Perché, appunto, i problemi dell'Europa si risolvono agendo su scala europea. E non invece, come fanno partiti e partitini antieuropei, agendo a dimensione addirittura regionale, come fa la Lega; o solo nazionale, come fanno Cinque Stelle e una sempre più isolata Forza Italia; o immaginando una riscossa mediterranea, come fa la lista Tsipras, forte solo in Grecia.

No, la risposta deve essere europea, abbiamo bisogno di grandi forze politiche europee, che diano vita ad un nuovo patto tra europei.

Un «patto della speranza», che rimuova le ragioni della rabbia. Un patto tra paesi e tra partiti: un patto tra paesi, nordici (Germania in testa) e mediterranei (con in testa l'Italia), in seno al Consiglio europeo; e un patto tra i principali partiti europeisti al Parlamento europeo, quelli di centrosinistra che si riconoscono nel Pse e quelli di centrodestra del Ppe.

Il contenuto del patto deve essere un «New Deal» europeo, che affianchi all'obbligo del pareggio di bilancio e di rientro dal debito per gli Stati nazionali (il famoso Fiscal compact, che impedisce ai governi di comportarsi da cicale), un nuovo patto per la crescita (Growth compact), basato su forti misure espansive, di stampo keynesiano, finanziato attraverso l'emissione, a livello di Eurozona, di titoli pubblici comuni (Project Bonds), finalizzati non alla messa in comune del debito pregresso, ma alla mobilitazione di ingenti capitali (centinaia di miliardi di euro) per finanziare un ambizioso programma di investimenti in infrastrutture, assetto del territorio, ricerca, formazione superiore.

Si tratta, in altri termini, di utilizzare l'euro, la moneta comune di 18 paesi europei su 28, non più solo come strumento di disciplina e rigore, ma anche e soprattutto come leva per la crescita sostenibile, la competitività e la buona occupazione. Più o meno quello che fanno gli americani col loro dollaro.

Il nuovo «patto della speranza», tra nordeuropei a guida tedesca ed euromediterranei a guida italiana, tra l'Europa del burro e quella dell'olio d'oliva, si farà comunque, in seno al Consiglio europeo, nel corso del semestre di presidenza italiana. Perché non ha alternative.

Ma la qualità innovativa del patto dipenderà dai rapporti di forza che gli elettori stabiliranno in seno al nuovo parlamento europeo (al netto delle forze della rabbia disperata e inutile), tra centrosinistra e centrodestra, tra Pse e Ppe. Se dovessero prevalere i popolari e il centrodestra, sarà attorno a loro e al loro candidato alla presidenza della commissione, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, che si costruirà l'accordo. Se invece, come mi auguro, dovessero prevalere le forze di centrosinistra, sarà alle loro condizioni e attorno al candidato progressista, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, che si formeranno assetti e indirizzi del nuovo corso europeo. Insomma, più forte sarà il Ppe, più forte sarà Frau Merkel in Germania e in Europa, più forti saranno gli elementi di continuità rispetto alla linea seguita negli ultimi anni. Al contrario, più forte sarà il Pse, più forti saranno Renzi e il Pd, più netti e chiari saranno gli elementi di discontinuità e di innovazione. E più forti saranno, per l'Europa e per l'Italia, le ragioni della speranza.