In molti mi hanno chiesto, sorridendo, se è per incontrare Marcello Dell'Utri che sono andato in Libano, lo scorso fine settimana, con due colleghi della Commissione Esteri del Senato. La battuta è innocente, ma non c'è proprio niente da ridere (e molto su cui riflettere) se un fuggiasco eccellente, inseguito dalla giustizia italiana, fa molto più notizia di milioni di profughi siriani, inseguiti da una guerra feroce, che sta radendo al suolo il loro paese. Giorgio Tonini, "Trentino", 13 maggio 2014
Oltre a centinaia di migliaia di morti, la guerra in Siria ha prodotto, secondo stime delle Nazioni Unite, nove milioni di profughi: una vera e propria catastrofe umanitaria. Quasi la metà degli abitanti di quel disgraziato paese ha dovuto lasciare la sua casa, il suo lavoro, le sue radici. Come se un'intera regione Lombardia (o, se preferite, diciotto province di Trento...) si fossero messe in marcia, per fuggire dagli orrori della guerra. Sei di quei nove milioni sono profughi interni, costretti a spostarsi da una parte all'altra della Siria. Gli altri tre milioni sono usciti dal paese e di questi la metà ha cercato scampo in Libano. Dunque la piccola Repubblica dei cedri, coi suoi quattro milioni e mezzo di abitanti, si sta facendo carico dell'accoglienza di un milione e mezzo di siriani. È come se la Campania dovesse far fronte all'arrivo, nel giro di pochi mesi, di due milioni di rifugiati laziali, lucani, pugliesi... Il Libano sta dando al mondo una straordinaria lezione di generosità. Ma ogni giorno, dai lunghi e porosi confini con la Siria, entrano 50 mila nuovi profughi. Una parte trova ospitalità presso parenti o conoscenti. I più si sistemano (si fa per dire) in "informal camps" fuori dai villaggi libanesi, dai quali cercano di avere un minimo di servizi. Il risultato è che per gli uni e per gli altri cominciano a mancare sia l'acqua (quest'anno già scarsa, a causa di un inverno eccezionalmente secco), che l'elettricità, di cui il Libano non è mai stato un produttore efficiente. Soprattutto, c'è il rischio che la grande immigrazione siriana, fatta soprattutto di musulmani sunniti, possa alterare il fragilissimo e sempre precario equilibrio libanese: tra cristiani e musulmani, e tra musulmani sunniti e musulmani sciiti, mettendo a repentaglio, ancora una volta, la pace interna alla turbolenta Svizzera del Medio Oriente. L'Italia è uno dei pochi paesi che non si sono girati dall'altra parte, ma hanno cercato e cercano di dare una mano, senza schierarsi con l'una o l'altra delle parti in conflitto. È per questo che noi italiani siamo stimati e perfino amati, in Libano, come abbiamo potuto constatare nei numerosi incontri previsti dalla fitta agenda della missione del Senato. L'invito in Libano ci era arrivato dai responsabili in loco, non casualmente italiani, dell'UNDP, l'organizzazione dell'ONU che si occupa di sviluppo locale e che sapientemente, dal Palazzo di vetro, hanno deciso di mobilitare accanto all'UNHCR, l'agenzia da sempre in prima linea nel fronteggiare l'emergenza profughi.
Compito del progetto UNDP "Supporting Host Communities" è per l'appunto quello di sostenere le comunità libanesi, si tratti di sobborghi della grande Beirut o di villaggi rurali, nell'ospitare i rifugiati siriani. L'impatto di questa gigantesca onda di profughi ha avuto infatti effetti economici e sociali devastanti: in termini di perdita di PIL, di aumento del deficit pubblico e dei tassi di povertà e disoccupazione, di pressione sulle infrastrutture civili e sui servizi sociali. E forte e diffusa è in Libano la preoccupazione che questa emergenza possa durare molto a lungo. Il programma UNDP mira a rafforzare le comunità locali libanesi su tre fronti: quello economico-produttivo, quello dei servizi territoriali di base e quello della prevenzione dei conflitti. La gestione del programma è stata affidata ad un team prevalentemente italiano, guidato da Luca Renda. Non casualmente, dicevo: perché gli italiani sono stimati e amati dai libanesi, ma anche perché nessuno come gli italiani è esperto di sviluppo locale e di governo partecipato del territorio. E infatti, il cuore del progetto sta nel partenariato tra sistemi locali libanesi e italiani, attraverso il coinvolgimento di amministrazioni regionali e comunali, Università, ospedali e altre istituzioni del nostro paese, su specifici aspetti: alla Provincia autonoma di Trento, ad esempio, è stato chiesto di mettere a disposizione la sua esperienza nel campo ambientale, a cominciare dalla gestione dei rifiuti. Ma la principale ragione della simpatia dei libanesi per l'Italia resta la presenza, ormai da otto anni (che diventano molti di più se si torna con la memoria alla prima nostra spedizione negli anni '80), dei nostri militari in missione di "peacekeeping", ossia di mantenimento della pace. Fu uno dei più brillanti risultati del Governo Prodi: nell'estate del 2006, un'iniziativa politico-diplomatica italiana, sostenuta dalla Francia e incoraggiata dagli Usa, fermò la guerra tra Israele e gli Hezbollah, l'organizzazione politico-militare sciita che controlla il sud del Libano. Le parti accettarono il dispiegamento di una consistente forza ONU di interposizione (più di diecimila effettivi), a guardia dell'intangibilità del confine israelo-libanese. L'Italia contribuì alla missione fornendo all'ONU duemila uomini, oggi ridotti ad un migliaio. Il primo comandante sul terreno fu un ufficiale francese, mentre ad un generale italiano andò il comando dell'operazione da New York. Da allora, gli italiani hanno più volte avuto il comando in Libano, attualmente nelle mani del generale Paolo Serra. La missione UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon) è dunque agli occhi dei libanesi una missione "italiana" e gli italiani, per la loro straordinaria capacità di mediazione, nella quale eccellono non solo i nostri diplomatici, ma anche i nostri militari, sono identificati con il "peacekeeping", il mantenimento della pace. Del resto, il pericolo oggi non viene dal Sud, presidiato da UNIFIL, ma da Est e da Nord, dove si combatte una feroce guerra civile, che sta dilaniando non solo la Siria, ma tutto il mondo arabo-islamico: una guerra civile tra sunniti e sciiti e perfino all'interno di entrambe le comunità nelle quali si è storicamente diviso l'Islam. Nessuno può vincere questa guerra, ci ha detto un vecchio combattente, il presidente del parlamento libanese, Nahib Berri, leader storico del partito sciita Amal, un nome che in arabo significa speranza. L'unica via d'uscita, per la Siria e per il Medio Oriente, secondo Berri, è una conferenza formato 5+2 (Arabia Saudita, Turchia, Iran, Usa e Russia, più Europa e Cina), che elabori ed imponga alla Siria un piano di pace. Un piano che dovrà comprendere anche l'Iraq, ha aggiunto il nunzio apostolico, mons. Gabriele Caccia. La strada della diplomazia è lunga e i libanesi lo sanno. Anche per questo si tengono ben stretti gli italiani in borghese di UNDP e quelli in divisa di UNIFIL.
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