No all'economia dell'esclusione

Chi si occupa di economia e finanza non può non essere colpito dal recente atto d'accusa di papa Francesco contro la «dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano», che mette in crisi la fiducia abitualmente riposta nella capacità del mercato di libera concorrenza di produrre e distribuire la ricchezza.
Alessandro Olivi, 24 febbraio 2014


L'autorevole rappresentante di una delle fibre più forti del tessuto sociale mette in luce un'ingiustizia evidente: «mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice» per effetto di «ideologie che difendono l'autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria» con la conseguenza che «in questo sistema qualunque cosa che sia fragile, come l'ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta».

Un'ingiustizia di fronte alla quale tutti noi, credenti o meno, dovremmo sentirci sul banco degli imputati, anche perché non occorre andare nelle favelas brasiliane per toccarla con mano: basta assistere all'amaro baratto, imposto agli operai di varie aziende, anche in Trentino, fra la permanenza dei posti di lavoro e la riduzione di un già povero salario.Invece, com'è stato osservato, il pericolo è che il messaggio del Papa venga ammorbidito e deviato sugli aspetti educativi, culturali e valoriali, per «salvare» la natura virtuosa dell'economia globale quale generatrice di benessere.

La tentazione di minimizzare la portata (rivoluzionaria?) del documento è forte anche per chi ha responsabilità di governo: l'intervento pubblico, in fondo, è per definizione dalla parte del Papa, in quanto trova il proprio fondamento proprio nella conclamata incapacità del mercato, con i suoi automatismi, di perseguire in modo soddisfacente i tre grandi obiettivi di interesse generale: l'efficienza del sistema, l'equa distribuzione del benessere e la stabilità economica.

Potremmo allora «chiamarci fuori» ricordando la rete di norme, incentivi e servizi stesa a protezione dei soggetti più indifesi; potremmo parlare dell'Agenzia del Lavoro, esperienza pilota in Italia; del potenziamento degli ammortizzatori sociali, esempio di utilizzo dell'autonomia a servizio delle fasce deboli; degli impegni occupazionali, che sempre si associano alla concessione di aiuti o di beni pubblici; delle agevolazioni Irap, che premiano le aziende virtuose con i lavoratori; ma tutto ciò non sarebbe che una risposta stucchevole e inadeguata all'esortazione pontificia, tanto accorata quanto potente e diretta nella critica al sistema che ha generato la globalizzazione selvaggia.

La condanna di papa Francesco è infatti profonda, non aggirabile, e investe le fondamenta stesse del nostro sistema economico, sorretto dal «feticismo del denaro» e dequalificato dalla «grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l'essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo»; a questa condanna non si può quindi rispondere arroccandosi sull'esistente, per quanto apprezzabile possa essere: serve un intimo riesame della vicenda economica moderna e delle sue determinanti.

Senonché l'economia di mercato non ha alternative realistiche; e qualsiasi ulteriore forma di garanzia di tipo inclusivo (normativa, contrattuale, fiscale o assistenziale) finirà per ripercuotersi sulla competitività delle imprese, salvo improbabili accordi planetari.

Che fare allora? In mancanza di una soluzione univoca, intravedrei due strade per cominciare a sottrarci alla «globalizzazione dell'indifferenza». La prima si compendia in una parola: rigore (nell'utilizzo delle risorse collettive). Bisogna agire su tutto ciò che, dentro e fuori la pubblica amministrazione, corrisponde al concetto di «spreco»: dai costi della politica, per primi, alle spese faraoniche, alle retribuzioni più elevate, alla burocrazia inutile, all'assistenzialismo, all'evasione fiscale, a tutto ciò che, in via diretta o mediata, non crea opportunità per qualcuno di quegli esclusi che tanto stanno a cuore del Pontefice. Lo sbocco sarà l'invocata riduzione della pressione fiscale, e in particolare dei tributi sul lavoro, che consentirebbe alle imprese trattamenti retributivi più dignitosi e nuove assunzioni (ognuno coglie, in proposito, il riferimento a un punto forte del programma di legislatura: la riduzione generalizzata dell'Irap, più marcata per le imprese che consolidano o aumentano l'occupazione). Stiamo insomma parlando di una grande riforma del nostro quotidiano agire all'insegna della sobrietà, soprattutto a carico delle voci improduttive o inique, evitando così di penalizzare i servizi pubblici essenziali.

La seconda via è di metodo. Sarebbe importante che tutti i soggetti dello sviluppo affrontassero economia e welfare come le due facce di una stessa medaglia. Profitto e solidarietà, pur rispondendo a logiche diverse, non possono che maturare insieme, perché è proprio la loro separazione, con una solidarietà ridotta a beneficienza, ad aprire le porte all'economia dell'esclusione. Dobbiamo invece favorire il permearsi di questi due versanti dell'attività d'impresa, secondo i principi del bilancio sociale, che «trasforma» i costi aziendali in ricavi collettivi (evidente il caso del lavoro: un costo per l'azienda ma un beneficio per la comunità), in quanto le imprese integrano volontariamente le preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle proprie operazioni commerciali e nei propri rapporti con le parti interessate. Le quote di utile immediato sacrificate per una migliore remunerazione dei fattori produttivi si trasformano così in utile differito, attraverso i ritorni di una crescita partecipata e sostenibile.

Per favorire questa interrelazione, non si vede strumento migliore della concertazione, con cui i contrastanti interessi che ruotano attorno all'impresa sono composti attraverso un confronto, che non di rado spiana la strada a una più solida alleanza fra impresa e lavoratori, come nel caso degli accordi di produttività. La nostra Provincia, avendo pervicacemente sostenuto, nonostante qualche scetticismo, la qualità del rapporto con le parti sociali, è un caso reale di applicazione di questa linea di pensiero. Il nostro sistema agevolativo è intriso di clausole sociali tendenti, fra l'altro, al rafforzamento dei livelli occupazionali, previo accordo sindacale. La legge sugli incentivi alle imprese è stata integrata per coinvolgere i lavoratori nelle decisioni aziendali che li riguardano. In molti casi (con la procedura negoziale) la partecipazione del Sindacato, a fianco della Provincia e dell'azienda, attribuisce all'azione stimolatrice pubblica un carattere trilaterale, che rappresenta una peculiarità del sistema locale. Una peculiarità, guardata da alcuni con sufficienza, della quale l'ammonimento del Papa ci fa invece andare fieri.

Del resto, se il problema sono gli esclusi, chi meglio delle formazioni sociali che li rappresentano può interpretarne la sensibilità, creare partecipazione e consapevolezza, e cercare di migliorare le cose a loro favore? Le parti sociali sono sotto questo profilo veri e propri agenti di sviluppo, che integrano la capacità di governo del sistema, aiutando a trovare soluzioni. Speriamo che questo possa essere finalmente compreso da tutti, nonostante gli squilli stonati di certe trombe del qualunquismo, sospingendo l'economia trentina sempre più avanti sulla via dell'inclusione sociale.