Provo a formulare quattro proposte per la politica universitaria. La prima è più ambiziosa, le altre tre meno impegnative ma forse non del tutto irrilevanti.Michele Nicoletti, "L'Unità", 16 dicembre 2013
La prima: un Master Plan of Higher Education. Nel 1960 la California – è vero: altri tempi e altre risorse! ma ciò non vuol dire che non si possa imparare qualcosa da quella lezione – si è trovata di fronte a una sfida simile a quella di fronte a cui si trova il nostro sistema universitario: come trasformare un sistema frammentato in un sistema che garantisca alta qualità e accesso per tutti? La risposta è stata il “Master Plan of Higher Education” (http://www.ucop.edu/acadinit/mastplan/mpsummary.htm) a partire dal quale si è realizzato un ottimo sistema universitario pubblico.
Due le idee di base: a) non ha senso che tutte le università facciano tutto, per cui occorre differenziare le funzioni articolando il sistema universitario in tre segmenti: formazione alla ricerca per gli studenti migliori; formazione professionale in tutti i settori compreso l’insegnamento; formazione di base e formazione permanente per giovani e adulti; b) consentire l’accesso ai più alti gradi di istruzione a costi accessibili a tutti a seconda delle diverse capacità.
Con questo Piano, rivisto più volte nel corso degli anni ma mantenuto nella sua filosofia di fondo, il sistema universitario californiano è riuscito ad innalzare la formazione universitaria per tutti, a costruire centri di eccellenza tra i migliori del mondo con evidenti ricadute sullo sviluppo dell’economia e a coltivare centri di pensiero critico senza i quali nessuna democrazia è in grado di sostenersi.
Perché non avere – nel nostro piccolo e nelle dure condizioni dei tempi – una simile ambizione? Ciò però impone l’elaborazione partecipata di un disegno strategico e non la mera applicazione di algoritmi a cui consegnare il destino di vita o di morte delle nostre università.
La seconda: il riordino del reclutamento dei giovani ricercatori. Negli ultimi decenni abbiamo realizzato il Far West: siamo passati da posti di ricercatore a vita, con scarsi o nulli controlli, a contratti a singhiozzo in cui la maggior parte dei giovani occupa metà del tempo a cercare i mezzi di sopravvivenza dopo la scadenza del contratto. Le prime vittime sono i giovani, ma anche il sistema nel suo complesso non funziona. Altrove ci sono severi meccanismi di selezione, ma anche ragionevoli possibilità di contratti gratificanti e duraturi. Qualcosa negli anni scorsi si è fatto ispirandosi al modello anglosassone della tenure track, ma il complesso del sistema di reclutamento ricalca ancora il modello del passato. Occorre procedere a un riordino di questa terra di nessuno con tre mosse: valorizzare adeguatamente il titolo di dottore di ricerca nel settore pubblico e privato, in modo da consentire anche percorsi alternativi a quello accademico; rivisitare le garanzie che accompagnano il periodo necessariamente libero dei post-doc e favorire la concentrazione di risorse su settori che hanno reali chances di sviluppo; rendere effettiva la possibilità di acquisire una posizione stabile alla fine di un periodo di ricerca a tempo determinato sottoposto a severe verifiche.
La terza: occorre valorizzare di più il comparto umanistico. È una delle eccellenze italiane e uno dei settori in cui da sempre le nostre istituzioni e i nostri ricercatori danno un contributo straordinario a tutto il resto del mondo. Non lasciamolo avvilire. Applicare le ripartizioni delle quote di finanziamento europeo (solo il 20% alle scienze umane e sociali) alla situazione italiana senza tenere conto del nostro patrimonio e della nostra specificità non è una buona scelta. Si applichino i criteri più rigorosi di selezione e di controllo, ma non si avviliscano tradizioni di ricerca verso le quali oggi nel mondo si guarda con nuovo interesse e curiosità. Si corregga pure sul piano della didattica il mismatch tra offerta formativa e sbocchi lavorativi, ma si ripensi anche al ruolo delle discipline umanistiche nello studium generale che in una vera università dovrebbe pure interessare tutte le facoltà. Si valorizzino le discipline e le ricerche umanistiche nelle relazioni internazionali utilizzando meglio la rete dei dipartimenti e dei docenti di Italian Studies in tutto il mondo: sono una formidabile ambasciata per studenti e ricercatori di ogni continente. Non aspettano altro che di essere sostenuti e sono pronti a favorire quel reclutamento di studenti stranieri a cui dobbiamo puntare.
La quarta: si superi l’ossessione del controllo burocratico e si regali un po’ di tempo ai docenti e ai ricercatori. Se i soldi sono pochi, si dia loro almeno un po’ di “mesi uomo”, oggi spesso assorbiti da pratiche burocratiche che hanno ben poco a che fare con la ricerca e l’insegnamento. Si facciano controlli di ogni tipo, si mandino gli ispettori del Ministero a verificare la qualità dei risultati, ma si metta fine all’illusione di garantire la qualità attraverso il rispetto esteriore e formale di requisiti numerici, la compilazione di formulari, la rigida osservanza di tabelle. Si restituisca un po’ di tempo e di libertà alla creatività, allo studio e al dialogo – vero - con gli studenti, da cui da secoli trae la sua linfa ogni comunità universitaria.
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