È stato nominato da poco capogruppo provvisorio del gruppo consiliare del Pd, ma Mattia Civico, rieletto con 3.476 voti, potrebbe dover lasciar presto il ruolo, per assumerne un altro. Il suo nome circola come possibile assessore alla salute e al welfare della prossima giunta Rossi. Lui non nega che le competenze e l'esperienza per fare l'assessore le ha accumulate negli anni di attività della commissione che ha presieduto, anche se ritiene che ci possano essere anche altri nomi del partito che possono ricoprire il ruolo.
A. Conte, "L'Adige", 7 novembre 2013
Capogruppo Civico, tra i nomi emersi per l'assessorato alla salute c'è anche il suo. Che ne dice? Essendomi occupato di sanità e welfare in commissione per cinque anni, avendo conoscenza di quanto è stato fatto e di cosa c'è da fare, del fatto che ci vuole una consapevolezza politica forte, ci sono argomenti per sostenere l'adeguatezza a un incarico al sottoscritto. Ma Rossi sa che può contare su tutti e nove gli eletti del Pd e in tutti i casi trova persone disponibili a lavorare.
Ritiene che anche altri potrebbero essere adeguati al ruolo? La volta scorsa l'assessorato a Rossi è stato consegnato senza una evidente esperienza pregressa, lo dico col massimo rispetto e vedendo che i risultati alla fine sono stati positivi.
Quali sono i nodi della sanità trentina da sciogliere secondo lei? Bisogna partire dalla definizione chiara del piano sanitario provinciale, perché in vista ci sono scelte difficili da prendere. La rete ospedaliera ha un suo centro nel Not, attorno al quale ci sono da determinare i rapporti tra periferia e centro. Vedo poi importante consolidare il ruolo dei dipartimenti.
Gli ospedali di periferia, vanno ridotti nell'offerta di cura e medica in generale? Più che di riduzione della presenza, preferirei parlare di una ridefinizione dei presidi sanitari, perché il principale obiettivo è quello della tutela della salute dei cittadini che devono trovare un presidio sanitario in periferia. Non possiamo sguarnire i territori. In campagna elettorale c'è stato anche chi, nel Pd, ha parlato di riconsiderare l'investimento nel Not.
Va investito sul S. Chiara? Il Not serve: il Santa Chiara è vecchio e inadeguato, non ha senso continuare a investire risorse nelle ristrutturazioni. Il Not è un ospedale importante e, secondo me, dovrebbe diventare un elemento di collegamento con la sanità euroregionale.
La collaborazione con Bolzano e Innsbruck andrà rafforzata? Io credo che fare programmazione sanitaria nel solo bacino trentino, che è limitato, non va bene. L'Euroregione si basa sul gruppo di cooperazione transfrontaliera, servono politiche sanitarie condivise ragionando anche con Verona. Penso a una collaborazione anche sulla formazione sanitaria non solo per i medici ma anche per le altre professionalità sanitarie.
La sanità trentina è spesso al vertice delle classifiche italiane. Basta o serve fare di più? Non dobbiamo accontentarci di questo, la nostra sanità deve diventare europea.
Sul welfare, che tipo di schema ha in mente? Il welfare è lo strumento di affermazione del diritto della cittadinanza per coloro che vivono sul nostro territorio. Ma non è possibile che i servizi erogati e le prestazioni siano l'unico luogo dove le persone trovano cittadinanza e appartenenza. Occorre fare un ragionamento serio sul welfare di comunità in grado di produrre risposte di comunità alle esigenze dei singoli. Penso a soluzioni che sono state messe in pratica l'Emilia Romagna e la Germania dove sono coinvolti il terzo settore e il mondo del volontariato. Il welfare va allargato nella platea di chi ne usufruisce.
A livello regionale la Svp ha inserito i 5 anni di residenza, lei ritiene che siano troppi? Ha senso trovare una forma condivisa, non può essere che ogni regione articola in maniera diversa l'accesso al welfare. Faremmo bene a tornare nell'ambito dei due anni di residenza, sui 5 dobbiamo fare una riflessione a livello di Regione.
Lei è sempre stato molto attento al tema dell'integrazione dei Sinti e dei Rom. Come pensa si possano inserire? Io dico che la chiave di uscita della crisi sta in un allargamento della cittadinanza verso persone che non si riconoscono nella comunità e che devono essere chiamate alla corresponsabilità. Faccio due esempi: nel ‘46 il nostro Paese ha riconosciuto il diritto di voto alle donne dando loro cittadinanza piena, oggi non è un caso che Napolitano ponga il tema dei diritti dei detenuti. Chi è ai margini va coinvolto.
Ma in che modo? Con Sinti, Rom e extracomunitari vanno fatti patti di legalità, in modo che si assumano responsabilità.
Uno dei nodi è quello dell'obbligo scolastico per i bambini, come se ne esce? La scolarizzazione è un dovere a prescindere, certo che se uno è sgomberato da un campo abusivo ogni 15 giorni non riesce a ottemperarlo. Occorre fare un grosso patto di cittadinanza con chi fa fatica a essere dentro la comunità. Con i Sinti va superata la questione dell'abusivismo perché è un danno che viene fatto a loro ma anche a chi ha un campo sotto casa, perché magari non trova parcheggio. Abbiamo una legge provinciale che indica la strada, definendo ambiti abitativi in cui i Sinti pagano affitto e utenze.