La cultura d'impresa non basta per governare

Rischio e profitto appartengono al mondo della cultura d’impresa e non sono applicabili alla politica ed alla gestione della cosa pubblica in senso più lato. Questo, in rapida sintesi, mi pare il senso dell’intervento del professor Toniatti sul Corriere del Trentino di ieri. Si tratta di una riflessione condivisibile, per certi versi anche addirittura indiscutibile, laddove si afferma  che la produzione di ricchezza viene riconosciuta, in tempi di crisi, un valore sociale prioritario e che la libertà d’impresa si esprime meglio quando si coniuga con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Alessandro Olivi, "Corriere del Trentino", 29 settembre 2013 

All’intervento di Toniatti, tuttavia, mi permetto di aggiungere un’ulteriore riflessione, sperando di poter arricchire il dibattito e l’argomentazione attorno ad esso.

Se è vero che, in sé, la cultura d’impresa non costituisce un parametro né qualificante né legittimante l’assunzione di responsabilità politiche, e che non è nemmeno – aggiungerei io – un paradigma di metodo applicabile tout court alla gestione politica della società, diventa tuttavia un capitale prezioso nel momento in cui si mette in relazione con una sensibilità ed un sistema di valori e di idee ben definito.

Non è credibile un progetto che si proponga di attingere senza intermediazione, senza confronto né dialogo, alla cultura d’impresa semplicemente per il motivo che la stessa cultura d’impresa e la gestione politica hanno due finalità completamente diverse. Da un lato, come ricorda Toniatti, c’è l’interesse particolare – per quanto possa essere volàno di sviluppo del territorio – dall’altro c’è la composizione di interessi generali, sia quelli attuali sia, in un’ottica di sostenibilità ed equità intergenerazionale, quelli futuri.

Al contrario, dunque, se inserito in un programma organico e finalizzato alla gestione ottimale del bene comune, il contributo delle imprese è, come quello di altre componenti, estremamente importante. Per questo credo vada apprezzato il tentativo delle categorie economiche (attuato praticamente da tutte le rappresentanze) di inserirsi nel dibattito pre-elettorale, sottolineando le proprie esigenze di sviluppo e crescita, e vada invece guardato con sospetto chi strumentalizza il capitale imprenditoriale agendo con meccanismi e schemi estremamente datati; oggi non abbiamo bisogno di tornare a ragionare secondo quelle vecchie logiche che hanno dimostrato tutti i loro limiti, ma dobbiamo avere la forza di guardare più lontano e di puntare più in alto.

Per questo vorrei riappropriarmi dei due concetti che citavo all’inizio: rischio e profitto. In una dimensione politica, rischio e profitto si declinano non in una prospettiva economica ma, diciamo così, umana.

IL RISCHIO è l’attitudine a mettere in discussione lo stato delle cose per cercare di migliorare la qualità della vita e il benessere di una comunità. La crisi ci insegna, oggi più che mai, che un atteggiamento inerziale è estremamente dannoso e l’incapacità di cambiare è spesso sinonimo di fallimento.

IL PROFITTO, invece, è quell’indice complesso che si misura con la soddisfazione dei cittadini, con l’esistenza di un fisco equo per famiglie ed imprese ma anche con un sistema di welfare presente ed efficace, con la promozione dell’operosità individuale e con la ricerca del benessere – in senso molto ampio – collettivo.