La ratifica da parte del Parlamento italiano del Trattato Internazionale sul Commercio delle Armi approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 3 aprile scorso rappresenta una tappa importante nella costruzione di quella convivenza pacifica a livello internazionale a cui tutti aspiriamo. Si tratta di un documento che è stato condiviso dalla stragrande maggioranza degli Stati rappresentati all’ONU che al momento della sua adozione ha raccolto 154 voti a favore, 23 astensioni e solo 3 voti contrari.
Michele Nicoletti, 11 settembre 2013
L’ampiezza di questo consenso dimostra che nella volontà politica degli Stati, pur tra difficoltà e contraddizioni, è maturata la consapevolezza dell’importanza di introdurre severi controlli in materia di traffico di armi, per il ruolo nefasto che un commercio sregolato esercita nella moltiplicazione dei conflitti, nelle continue violazioni dei diritti umani, nel diffondersi della criminalità internazionale e del terrorismo.
Il principio fondamentale del Trattato è portare a trasparenza il commercio di armi convenzionali per evitare forniture a soggetti criminali o a Stati che minano la pace e la sicurezza e commettono violazioni del diritto umanitario internazionale. Non è un caso che i 3 voti contrari provengano da governi quali quelli della Corea del Nord, Iran e Siria.
Di grandissimo valore è stato l’impegno dei Paesi dell’Africa sub sahariana che nei momenti di stallo dei negoziati si sono fatti promotori di forti iniziative per giungere all’approvazione del Trattato. Si tratta di Paesi che hanno pagato negli ultimi anni il prezzo più alto del traffico incontrollato di armi, armi che hanno spesso dato vita a guerre tribali e massacri senza fine. Sono Paesi che per anni hanno riposto la loro speranza di riscatto nell’acquisizione frenetica di più armi, che hanno dilapidato le risorse del loro popolo, e che ora, di fronte alle spaventose devastazioni dei mercanti di morte, sono tra i primi a chiedere a tutto il mondo severi controlli e regolamentazioni. È la forza del diritto e della legalità che viene invocata.
Questo risultato è stato il frutto non solo dell’azione dei governi, ma anche e soprattutto di una significativa azione di sensibilizzazione di associazioni e movimenti che da decenni si battono a livello internazionale a favore di una regolamentazione del commercio di armi.
Quest’azione è stata subito riconosciuta dallo stesso Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che ha detto: “Mi congratulo con i membri della società civile per il ruolo fondamentale che hanno avuto fin dalla nascita di questo processo, attraverso i loro contributi di esperti e il loro sostegno entusiasta”. Non è un caso che l’approvazione del Trattato sia stata salutata dagli attivisti della campagna Control Arms come “l’alba di una nuova era, perché questo voto invia un segnale chiaro ai trafficanti di armi e a chi viola i diritti umani: il loro tempo è scaduto”.
E ancora Amnesty International ha commentato: “Se si pensa al grande interesse economico e al potere politico in gioco per i grandi produttori ed esportatori di armi, si comprende come questo Trattato sia un omaggio per la società civile che da tempo sostiene l’idea che con meno armi si possano salvare vite umane e ridurne le sofferenze”. E anche questa è una lezione importante: una comunità internazionale più umana non nascerà se non dalla collaborazione virtuosa tra governi e movimenti della società civile.
L’approvazione del testo non è, evidentemente, sufficiente a mettere fine alle illegalità e agli abusi. Vi sono, infatti, ambiti che il Trattato non comprende, come quello relativo alle munizioni e alle componenti d’arma, il cui commercio è affidato alla regolamentazione dei singoli Stati. Su questi abiti si dovrà pensare in futuro ad una estensione del Trattato. E vi è naturalmente il problema dell’applicazione del Trattato stesso attraverso un adeguato sistema di controlli e sanzioni senza il quale esso rischia di restare un testo di mere buone intenzioni. La ratifica è dunque solo il primo passo. Servono poi delle politiche attive.
Ciò deve riguardare anche il nostro Paese che pure da tempo si è dotato di una legislazione tra le più avanzate in materia che è stata di esempio e di stimolo per molti altri Paesi e per la stessa comunità internazionale. Si tratta come sappiamo della legge 185 del 1990 che oltre ad una serie precisa di controlli tesi a portare alla massima trasparenza ogni acquisto e vendita di armi vieta l’esportazione ed il transito di materiali di armamento “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere; verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione; verso i Paesi nei cui confronti sia stato dichiarato l’embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite o dell’Unione europea (UE); verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa; verso i Paesi che, ricevendo dall’Italia aiuti ai sensi della legge 26 febbraio 1987, n. 49, destinino al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del paese; verso tali Paesi è sospesa la erogazione di aiuti ai sensi della stessa legge, ad eccezione degli aiuti alle popolazioni nei casi di disastri e calamità naturali”.
La legge vieta inoltre “la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione ed il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione o la cessione della relativa tecnologia. Il divieto si applica anche agli strumenti e alle tecnologie specificamente progettate per la costruzione delle suddette armi nonché a quelle idonee alla manipolazione dell’uomo e della biosfera a fini militari“. Nel corso degli anni alcune previsioni di questa legge sono state indebolite da scelte governative e da accordi intergovernativi tesi a favorire la ristrutturazione e lo sviluppo dell’industria bellica europea e oggi noi esportiamo armi in Paesi che violano i diritti umani purché li violino “in modo non grave”. Ora noi chiediamo che la ratifica di questo Trattato internazionale impegni il Governo e il Parlamento italiano a recuperare pienamente lo spirito originario della legge 185 e a ritrovare quel rigore che solo può attuare una vera politica di prevenzione della violenza e del terrorismo.
Tutto ciò non è di secondaria importanza. Ma proprio la consapevolezza della parzialità e fragilità degli strumenti del diritto internazionale ci deve spingere a sottolineare la funzione insostituibile dei Trattati nella trasformazione della comunità internazionale in una “società civile”, retta da regole definite e condivise. Questa è infatti l’idea guida che ha sorretto il cammino delle democrazie negli ultimi due secoli e che dopo la Seconda Guerra mondiale ha portato alla nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dei diversi organismi internazionali.
Questa è l’idea guida che sta dentro la Costituzione Italiana e che il nostro Paese ha cercato di fare propria nella sua politica estera: il rifiuto di ogni concezione della comunità internazionale come una sorta di giungla affidata alla legge del più forte e lo sforzo di farne una comunità giuridica in cui le risoluzioni dei conflitti non siano affidate alle ragioni delle armi, ma alle armi della ragione, della diplomazia, del diritto. È questa l’idea guida che sorregge la politica estera del Partito Democratico che vuole battersi per il radicale rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona in ogni parte del mondo.
Questo è infatti uno dei significati di questo Trattato che non possiamo lasciarci sfuggire in un momento di così alta tensione della politica internazionale. È una tappa sulla via dell’“incivilimento” e dell’“umanizzazione” della comunità internazionale, è una tappa sulla via della costruzione della società civile internazionale.
Una società civile si costruisce anche a partire dalla regolamentazione rigorosa dell’uso della forza e delle armi. Così è stato per la costruzione delle società civili nazionali, in cui all’anarchia della violenza quotidiana si è sostituito quell’ordine pacifico di libertà ed uguaglianza in cui vogliamo continuare a vivere. Così è stato per la costruzione della società civile europea e così speriamo possa accadere anche per la più ampia società civile internazionale.
Se noi oggi di fronte ai fenomeni mondiali di traffico clandestino di armi, opponiamo lo strumento giuridico di un Trattato e ci battiamo per il suo rispetto, è perché crediamo che al dilagare della violenza non si risponde con altra violenza, ma si risponde con la forza del diritto.
Ognuno vede il nesso con le vicende di questi giorni e in particolare con la crisi siriana. Vediamo che cosa voglia dire un ricorso ad armi chimiche, proibite dalle convenzioni internazionali non a caso non sottoscritte da alcuni Paesi. E ne abbiamo visto con spavento le ricadute sulla vita delle persone e sulla sicurezza di tutta la comunità internazionale. Tali eventi rappresentano un indubbia regressione della vita politica nazionale e internazionale alla barbarie. E ad essi occorre reagire. Ma se vogliamo che la nostra reazione si inscriva in quel processo di costruzione della società civile internazionale, occorre che essa si inscriva dentro i principi e le regole del diritto internazionale umanitario, per quanto debole e contraddittorio esso possa apparire. E questo diritto non consente nessuna reazione unilaterale, né consente il ricorso alle armi quale strumento di sanzione e nemmeno di mera deterrenza. Come sappiamo il ricorso alle armi come last resort (il che vuol dire dopo che sono state esperite tutte le altre vie) è rigidamente legato non solo ad una prassi autorizzata dagli organismi internazionali, ma anche al coinvolgimento degli organi regionali, al riconoscimento della soggettività politica e morale dei popoli, alla proporzionalità dei mezzi e comunque sempre allo sforzo di salvare vite umane, non di punire. La logica dei diritti umani si basa sul valore non strumentale di ogni persona e dentro questa logica non si può sparare a qualcuno per educare qualcun altro.
Il diritto internazionale è il più fragile di tutti i diritti e per questo dipende in larghissima misura dalla sua condivisione e dalla sua pratica costante. Ogni sua rottura – anche operata per buone ragioni – finisce per indebolirlo e renderlo inservibile. Al contrario, ogni atto di rispetto sostanziale lo rafforza.
Pur tra mille omissioni e contraddizioni la comunità internazionale sta elaborando una dottrina e una pratica dell’intervento a tutela dei diritti umani che ha bisogno essere rafforzato e non indebolito. Dentro questa logica – sorretta dal principio della “responsibility to protect” – sta anche la condanna dell’uso improprio delle armi, stanno le misure di embargo, che rappresentano un punto fondamentale del Trattato di cui discutiamo, stanno tutte quelle misure giuridiche e politiche alternative al dispiegamento della mera azione di forza, che noi dobbiamo con coraggio rafforzare.
L’atto con cui noi ratifichiamo questo Trattato si inscrive in questo processo: strappare al dominio della violenza e dell’illegalità sempre più ampi spazi di convivenza umana per sostituirvi il governo delle leggi e degli accordi pacifici. E considerato lo scenario internazionale contemporaneo e l’evoluzione dei sistemi d’arma, vista la positiva approvazione di questo Trattato da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, a noi pare che il nostro Parlamento e il nostro Governo dovrebbe accompagnare l’atto di ratifica di questo trattato con una forte iniziativa politica in sede internazionale per arrivare, con la stessa procedura, all’approvazione di una Convenzione sulle Armi Nucleari che realizzi quel mondo liberato dalla minaccia nucleare che era il sogno delle generazioni uscite dalla Seconda Guerra mondiale e che noi non dobbiamo smettere di volere e di costruire.