Forse gli strateghi occidentali che in queste ore spingono per un intervento militare contro la Siria nemmeno lo sanno. O forse è proprio per questo. Damasco è considerata la città più antica del mondo. Non l'insediamento umano, ma il contesto urbano più antico, del quale si parla in antiche tavole risalenti al 2500 a.C.
Michele Nardelli, "L'Adige", 2 settembre 2013
Ci fu un tempo nel quale Damasco era il centro del mondo, nell'intrecciarsi attorno ai suoi meravigliosi giardini della cultura bizantina, araba, persiana e indiana. La lingua colta che vi si parlava era il greco e proprio in quella città nacque fra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo il grande "movimento delle traduzioni" che portò - grazie alla trascrizione in arabo - alla conoscenza della filosofia di Aristotele e di Platone, della matematica di Euclide, Archimede e Tolomeo, dell'astronomia di Aristarco e dell'alchimia di Jābir ibn Hayyān altrimenti conosciuto come "Geber l'alchimnista", considerato il padre della moderna medicina.
Conoscenze che attraverso il Mediterraneo arrivarono in Europa grazie all'immenso lavoro di traduzione dall'arabo al latino che avvenne nelle città dell'Andalusia prima del 1492 quando, con la cacciata degli ebrei e dei mussulmani da Sefarad (così gli ebrei chiamavano la Spagna), si pose fine ad una delle esperienze culturalmente più alte che la storia europea abbia mai conosciuto. Così gli europei entrarono in contatto con la filosofia greca, ma anche con la scienza, con la poesia e la canzone d'amore.
Ne dovrebbe venire, se non altro, attenzione e rispetto.
Nel 2003 la coalizione dei potenti decise di bombardare Baghdad, città fondata nel 762 dC proprio in seguito al declino di Damasco e che in pochi anni divenne essa stessa - con il suo milione di abitanti (un numero straordinario per l'epoca) - il cuore dell'epoca d'oro degli arabi e importante centro culturale per il mondo intero. Andarono così distrutte, insieme a tante vite, alcune delle più importanti testimonianze della storia dell'umanità. Il tempo poi ci confermò che non ne avrebbero beneficiato nemmeno la pace, la democrazia e i diritti umani. Ma intanto il 70% del patrimonio contenuto nel Museo archeologico e nella Biblioteca nazionale di Baghdad era andato irrimediabilmente perduto.
Qualche anno prima accadde la stessa cosa nel cuore dell'Europa quando andarono in fumo l'Istituto Orientale e la Biblioteca nazionale di Sarajevo, la Gerusalemme dei Balcani. Custodivano la testimonianza di come si era andata costruendo l'Europa, le sue radici culturali plurime che invece si volevano cancellare. Perché così sono le nuove guerre, bombardamenti sulle città e sulle popolazioni, distruzione dei luoghi della cultura, signori della guerra e mafie che fanno affari fra loro.
Un rituale che poi abbiamo conosciuto con la "guerra infinita" in Afghanistan, sottoposta a bombardamenti a tappeto per sconfiggere quei Talebani che ora improvvisamente sono diventati interlocutori, lasciando quel paese lacerato da quarant'anni di guerra nell'incertezza e nel rischio di una nuova guerra civile.
Due anni fa il rituale si è ripetuto in Libia. Anche in questo caso un pericoloso dittatore da abbattere con il quale si erano fatti affari fino al giorno prima. L'esito è sotto gli occhi di tutti: un paese nelle mani di bande di criminali che si spartiscono le immense risorse naturali e destabilizzano i paesi circostanti. Quel paese offshore che l'amico Berlusconi stava trattando proprio con Gheddafi.
Ed ora? Possibile che non si impari nulla dalla storia? Come non vedere che il rituale si sta riproponendo in Siria fin nei dettagli? Certo, abbiamo a che fare con una dittatura sempre più feroce che non conosce limiti nella repressione delle istanze di libertà. Come Saddam Hussein, anche Bashar al-Assad è il prodotto di regimi illiberali nei quali le istituzioni statuali sono state occupate da clan famigliari e da caste militari. Regimi contro i quali due anni fa la Tunisia di Mohamed Bouazizi (il ragazzo che si diede fuoco diventando il simbolo della rivolta giovanile) e di Moahmed Brahmi (attivista politico assassinato il 25 luglio scorso dai fondamentalisti religiosi e fratello dell'amico Saadi) si era sollevata dando vita a quel grande movimento conosciuto come "primavera araba".
Un grande movimento nonviolento che chiedeva libertà, democrazia e dignità. Per mesi le strade della Tunisia, dell'Egitto, dello Yemen, della Siria e di altri paesi ancora più fragili come Libano e Palestina, si sono riempite di giovani, laici e religiosi insieme, per chiedere con la sola forza dei loro corpi un cambiamento che via via si è dimostrato effimero, tanto da riprodurre la vecchia contrapposizione fra la casta burocratico militare dei regimi e le organizzazioni islamiste che pure nella primavera avevano avuto un ruolo del tutto marginale, diffidando di quei giovani che chiedevano libertà.
Ora, di fronte alle armi chimiche e al terrorismo, si scaldano i motori degli eserciti occidentali. Ma durante la primavera c'era tutto il tempo per costruire relazioni, sostenere i processi di ricostruzione istituzionale e di formazione, mettere in campo forti pressioni economiche (anziché vendere armi) e cooperazione a sostegno dello sviluppo locale. A che serve altrimenti la politica? Che invece sembra conoscere solo il linguaggio dell'emergenza (e del proprio tornaconto).
Le primavere nonviolente hanno perso, fors'anche perché le abbiamo lasciate sole. L'intervento armato occidentale ora avrebbe l'unico effetto di rafforzare i militarismi e una dialettica schiacciata fra due fondamentalismi, quello nazionalista e quello jihadista.
Al contrario, con la scelta del parlamento britannico di non aderire alla coalizione interventista potrebbe aprirsi la possibilità per l'Europa di giocare un'altra partita, favorendo l'interlocuzione con quella vasta area culturale araba che delle parole "libertà, democrazia e dignità" aveva fatto il proprio simbolo. Favorendo quella rinascita araba di cui aveva parlato il leader della primavera di Beirut Samir Kassir, prima che un attentato terrorista lo uccidesse nel 2005. Sosteneva la necessità che gli arabi, eredi di una grande civiltà che guardava al futuro, si liberassero dalla propria infelicità per l'essere stati e il non essere più, abbandonando il miraggio di un passato
ineguagliabile e guardando finalmente in faccia la loro vera storia. L'età dell'oro della civiltà araba era fatta di sincretismi. Che oggi si chiamano interdipendenze.
Non scontro di civiltà.