Ogni volta che si verificano tragici episodi legati alla violenza sulle donne o contro gli omosessuali (ma il discorso vale anche per altre categorie deboli) il dibattito torna allo stesso punto. Servono provvedimenti appositi contro queste violenze o ogni violenza è uguale indipendentemente da chi ne è vittima? La lotta alla discriminazione è un settore tremendamente complesso. E se il problema è sociale e culturale è difficile pensare che la legge da sola possa risolverlo. Anzi, in molti casi la legge finisce per essere una scusa per lavarsi la coscienza, evitando la difficile attività di prevenzione e scaricando il problema sulle spalle della repressione, nei rari casi in cui funziona. Francesco Palermo, 15 agosto 2013
Ma se è vero che la legge da sola non basta, è anche vero che trattare in modo uguale situazioni diverse porta disuguaglianze. Perché chi usa violenza – fisica, verbale, psicologica – contro una donna, un omosessuale, un bambino, una minoranza, lo fa proprio in quanto la vittima appartiene a queste categorie. E infatti, nei confronti di alcuni soggetti deboli esistono già misure speciali, come nel caso dei minori. Il punto fondamentale sta proprio nel riconoscere questo collegamento. Un collegamento che i fautori dell’uguaglianza in senso formale, trincerandosi dietro il pensiero liberale classico, rifiutano di vedere, confondendo i piani tra ciò che dovrebbe essere (l’uguaglianza di tutti gli esseri umani) e ciò che è (la situazione di discriminazione che alcune persone subiscono in ragione della loro appartenenza a determinate categorie). In realtà l’uguaglianza formale è l’uguaglianza della maggioranza, mai della minoranza: molte categorie di persone si trovano in posizioni svantaggiate a causa di specifiche caratteristiche, e ignorare questo aspetto significa accettare implicitamente la perpetuazione dei comportamenti discriminatori. A questo servono delle leggi specifiche: a riconoscere le situazioni di fatto e a forzare la società, ciascuno nel suo ruolo, a lavorare per porvi rimedio. Un approccio totalmente indifferente alle differenze impedisce di combattere i fattori strutturali di discriminazione, che richiedono invece di essere identificati e riconosciuti dal legislatore. Quando in Italia molti sostengono che il Ministro Kyenge è in quella posizione “solo per il colore della sua pelle” si finge di non capire che occorrono misure promozionali, che abbiano una portata anche simbolica, per ridurre la discriminazione di soggetti che altrimenti saranno sempre discriminati. E’ per la persistenza di questo approccio che non c’è finora mai stato un ministro dalla pelle nera o un Presidente del Consiglio donna, o dichiaratamente omosessuale. L’argomento dell’uguaglianza formale è sempre addotto dalle maggioranze per perpetuare la disparità di fatto che le favorisce. Negli Stati Uniti sono state per secoli tollerate prassi discriminatorie nei confronti dei neri sulla base dell’uguaglianza formale: si diceva che i vagoni separati per “razze” nei treni non discriminavano, perché ognuno poteva ricevere il servizio. Ma poi, quando il paradigma è cambiato e si sono introdotte le azioni positive per i neri, queste sono state progressivamente smantellate dalla Corte Suprema invocando l’uguale trattamento dei cittadini. Le discriminazioni sono subdole e si annidano ovunque, a partire dalle nostre menti. In Francia sono stati condotti esperimenti inviando curricula-“civetta” ai datori di lavoro: i curricula di gran lunga migliori appartenevano a candidati con un nome che suonava di origine straniera, quelli associati a nomi che “suonavano” francesi erano volutamente i cv più scadenti. Ebbene, ai colloqui di lavoro venivano invitati per oltre il 90% i candidati col curriculum peggiore ma col “nome francese”. Non basta certo la legge a superare queste barriere psicologiche e culturali, e la discriminazione è nei fatti sempre un passo più avanti della legge. Ma negare la necessità di una risposta anche legislativa significa voler perpetuare le discriminazioni che a parole si condannano.
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