L’esito delle primarie del centrosinistra autonomista ha fatto emergere le criticità di un percorso politico incompiuto, quello del Partito Democratico. Quei 139 voti di scarto sono stati una sorta di detonatore di contraddizioni comunque presenti e che fin qui non abbiamo saputo o voluto affrontare.
Michele Nardelli, 29 luglio 2013
Lo stesso dibattito che ne è seguito ha evidenziato i limiti di fondo di un partito che fatica a comprendere la natura reale della sua crisi. Ho sentito critiche molto severe, l’indistinta richiesta di azzeramento degli organismi dirigenti, un monito verso il proliferare di personalismi che riducono la politica ad affare privato, un forte richiamo alla necessità di rinsaldare il rapporto con il territorio.
Tutto questo è più o meno comprensibile e, talvolta, condivisibile, ma tende ad eludere le ragioni di fondo che sono all’origine della crisi della politica e senza la risoluzione delle quali il resto appare come una sorta di anestetico o di pericolosa scorciatoia.
Certo, gli effetti degenerativi della politica ne hanno minato la dimensione progettuale e collettiva, per cui le idee diventano un optional e i destini personali tutto. Ma a monte di questo, all’origine della crisi profonda della politica e dei corpi intermedi, c’è un difetto di sguardo, l’incapacità di comprendere un contesto in rapida trasformazione che rende sempre più inservibili le categorie con cui osserviamo la realtà e gli strumenti con i quali interagiamo con essa.
Tutti noi abbiamo la consapevolezza della profondità dei mutamenti che investono il nostro presente, dal clima all’economia, dalla limitatezza delle risorse alle nuove frontiere della conoscenza o della comunicazione. Oggi però la politica non sa raccontare questi processi. Ci si aggrappa a Keynes nella speranza che prima o poi vi sia una qualche forma di ripresa dell’economia, quando quel tempo (e quel pensiero) sono finiti per il semplice fatto che quella ricetta si reggeva sull’illimitatezza delle risorse e sul fatto che i 3/5 dell’umanità non avevano accesso al tavolo della loro distribuzione. Oggi quella parte dell’umanità non solo siede attorno al tavolo, ma detta le condizioni.
La nascita del Partito Democratico aveva a che fare con tutto questo. Non rappresentava semplicemente l’incontro di due grandi storie, quella popolare e quella socialdemocratica, bensì la consapevolezza che quelle visioni non bastavano più, che occorreva una sintesi originale capace di interpretare una nuova storia dopo la fine di quella precedente. Un progetto ambizioso, laddove nel mondo gran parte della dialettica politica ancora si esprime attraverso la rappresentazione fra progressisti e conservatori, ma che non si è realizzato.
Al contrario, abbiamo quasi metabolizzato l’opacità di sguardo della politica, come se la sua sfera di azione non sapesse andare oltre la manovra quotidiana, incapace di proporre un progetto sociale e culturale alternativo a quello che per vent’anni ha dominato la scena politica italiana. Che, peraltro, abbiamo letto nelle sue manifestazioni più parossistiche, anziché comprendere come quel sistema di idee e (dis)valori si insinuava come un cancro nella vita delle persone prima ancora che nel corpo sociale.
Vent’anni che hanno lasciato il segno. Quell’opacità ha impedito di comprendere appieno quel che stava avvenendo, scambiando la cultura plebiscitaria per partecipazione, la necessaria mediazione fra governo e opposizione come “consociativismo”, la moderazione della politica verso l’economia come indebita ingerenza, l’impegno contro i privilegi con la demolizione delle istituzioni e della politica.
Quest’ultima si è trovata a rincorrere o a cavalcare gli avvenimenti alla ricerca di facile consenso, dimenticandosi che il suo ruolo avrebbe dovuto essere quello di proporre sguardi lunghi, visioni capaci di anticiparli, a volte di dire cose sgradevoli. L’esempio di come abbiamo subito la crisi è esemplare, senza neanche accorgersi che non di crisi si trattava, ma di un mutamento radicale di contesto, prodotto dalla finanziarizzazione dell’economia. Tanto che siamo ancora qui ad aspettare una locomotiva che non arriverà.
In questo la crisi della politica è più grave e profonda di quello che generalmente viene indicato e non basta il cambio di un gruppo dirigente, magari di qualche anno più giovane, se le coordinate culturali e lo sguardo rimarranno quelli di prima.
Non dobbiamo avere paura dei cambiamenti, anche quando il loro segno non corrisponde a ciò che vorremmo. La “maledizione di vivere in tempi interessanti” per usare la bella espressione di Hannah Arendt va intesa come opportunità e ricerca di un pensiero originale sintonizzato sulla “presenza al proprio tempo”. La fatica della politica sta proprio qui, nella difficoltà di essere presenti al proprio tempo.
La fatica di leggere il presente riguarda anche il Trentino che pure ha saputo essere altro nello scenario alpino degli ultimi quindici anni. Mi spingo ad affermare che se il Trentino non si è omologato ad un nord in preda allo spaesamento e alla paura lo si deve certamente alla sua storia autonomistica e ai caratteri di questa terra, ma anche alla sperimentazione politica originale che ne ha saputo fare un interessante laboratorio. E quando questo laboratorio non ha saputo più essere tale, quando ci si è appiattiti nella gestione dell’esistente come se l’autonomia fosse data una volta per tutte, quando la fedeltà è diventata più importante del libero pensiero, quando si sono scimmiottate le formule vuote della politica nazionale, anche la politica trentina ha mostrato i suoi limiti.
Nelle sue intuizioni come nelle sue criticità è questa una storia da rivendicare. Ora però dobbiamo saper andare oltre, ponendo al centro della nostra proposta il territorio (l’ambiente dell’uomo) e la conoscenza (una comunità in apprendimento permanente). Avendo chiaro che in gioco non ci sono le sorti di un partito, ma la capacità di alimentare di idee e buone pratiche la nostra autonomia.
Vorrei che al Trentino si potesse continuare a guardare – anche dopo il 27 ottobre – come ad un territorio non solo che sa coniugare autogoverno e responsabilità, ma che sa riprendere quella sperimentazione politica capace di proporsi ad un tempo territoriale ed europea, perché questa è la cifra del nostro presente.