«Qualcuno non si è impegnato abbastanza», «non c'è stata solidarietà interna», «abbiamo sbagliato linea politica», «è mancata l'organizzazione»: queste le frasi che si rincorrono da quattro giorni a questa parte aggiungendo confusione a confusione. Un fatto è certo.
Gennaro Romano, "L'Adige", 18 luglio 2013
Sabato scorso il Partito democratico del Trentino ha perso la sua più grande opportunità di sempre. Ha perso la possibilità di guidare una coalizione che aveva il diritto, forse il dovere, di guidare. Tutti aspettavano il Pd e il Pd non è arrivato al traguardo. Si è perso per strada, lungo il percorso a lui più confacente, quello delle primarie, che quando non riesce a interpretare come dovrebbe, riserva sempre brutte sorprese. Era già accaduto a Milano, a Genova, a Palermo, dove la gente ha preferito l'improvvisazione di nuove visioni e di nuove speranze alla certezza di candidati espressione di un esperto apparato.
Quando è l'apparato ad imporre il miglior candidato, quel candidato perde. Quando invece il Pd non ha paura, apre alla partecipazione, si rende riconoscibile per chiare politiche progressiste, vince, sempre. Incidiamolo nella pietra! Fare politica con il freno a mano tirato non paga, mai. Purtroppo il peccato originale è radicale e profondo, molto serio.
Ho iniziato a viverlo in prima persona poco dopo essere stato eletto in assemblea provinciale nel 2009, quando ho visto seduti al tavolo della dirigenza tre dei quattro candidati alla segreteria. Ma come? Chi perde non riconosce la sconfitta e collabora nell'attuare la linea politica di chi vince, mi domandavo? Eh no! Non funziona così! Si crea una segreteria condivisa, d'apparato, in cui ognuno piazza i suoi uomini e ci si controlla a vicenda. Non è importante che prevalgano la progettualità e la linea politica di chi ha vinto. L'importante è che si mantengano gli equilibri nella gestione del potere.
In un contesto del genere i nuovi arrivati come il sottoscritto si sono trovati spiazzati: come fai a lavorare in commissioni tematiche che a nessuno interessa che lavorino? A volte la frustrazione è stata tanta.
Poi sono arrivati i momenti caldi, quelli elettorali. A novembre, prima delle elezioni politiche, ha iniziato ad emergere la debolezza del percorso condotto sin lì. Già allora, infatti, nella logica ripartizione dei seggi tra le forze della coalizione, il Pd doveva essere capace di garantirsi, per storia, per rappresentatività, per la qualità delle politiche espresse, la guida della Provincia per il prossimo quinquennio.
Proprio in ragione di un instabile equilibrio interno le risorse personali si sono più concentrate sul garantirsi i posti alla Camera e al Senato che sull'imporre la forza del Pd nelle trattative con gli alleati in vista dell'autunno. Con il risultato che nonostante le importanti e dolorose concessioni agli alleati (su tutte quella di Panizza sul collegio di Trento) nessun accordo pro futuro veniva siglato per la presidenza della Provincia. Poi, una volta eletto, il segretario ha dato le dimissioni. E lì l'inizio della fine.
Chi era arrivato terzo (su quattro) al congresso, il compagno Pinter, voleva, anzi doveva, fare il segretario. Ma come? Se arrivi terzo a un congresso non significa che hai perso? No, evidentemente no. Di fronte al netto rifiuto di buona parte dell'assemblea lo stesso Pinter ha optato per il ruolo di presidente del partito, subentrando a Tonini, nuovamente eletto senatore. Da quel momento lui ha dettato l'agenda. Praticamente da solo. La minoranza si è resa maggioranza. Ha indetto immediatamente la conferenza programmatica del 20 aprile 2013 con l'evidente fine, utopistico, di colmare quel ritardo di progettualità che il partito aveva sofferto. E poi ha fatto di tutto, ovviamente non da solo, per non aprire un vero percorso di primarie, autentiche, aperte, contendibili, quelle che caratterizzano tutte le nostre carte fondamentali. Senza comprendere che la vera forza del Partito democratico sono le sue varie anime, le sue diverse sensibilità e visioni, che era ora e tempo che si confrontassero lealmente. Il tutto con un segretario, ormai a Roma, incapace di imporre quella linea, di cui peraltro lui stesso sembrava convinto e che lo avrebbe qualificato politicamente. Primarie a doppio turno o di partito, poco cambiava, l'importante era condurre le primarie sul nostro campo di gioco, senza castrazioni.
Noi non siamo il Partito Condiviso, noi siamo il Partito Democratico! Che è ben altra cosa. Un unico candidato, per buono che fosse, sicuramente lo era, rappresentava per noi una scelta innaturale. Abbiamo perso le primarie perché non siamo stati in grado di parlare a tutto il nostro potenziale elettorato, che non è solo quello delle conoscenze personali, ma è soprattutto quello di opinione, esigente, che chiede linearità, trasparenza e coraggio da parte della sua classe dirigente. Tutto ciò è mancato. Ora si deve cambiare. Torniamo ad essere caratterizzati da percorsi interni e politiche virtuose sul territorio. Solo così facendo sapremo confermarci ad ottobre come primo partito del Trentino. La nostra gente ce lo chiede, il messaggio è stato doloroso ma fin troppo chiaro. Non possiamo non recepirlo.